Qualcosa è cambiato. Lo sciopero dei lavoratori dei call center non è delle tante vertenze che esplodono da ogni parte, ma rappresenta una rottura di paradigma, una crepa nel materiale duro e politicamente granitico oltre che consociativo. su cui si è costruita la precarizzazione del lavoro. I call center sono stati il settore pionieristico della mutazione italiana, quella con cui le grandi aziende operanti nei servizi di pubblica utilità, si sono sottratte al confronto diretto con gli utenti, servendosi di un muro umano, spesso anonimo e totalmente estraneo ad esse; quella attraverso cui è stata sdoganata un’imprenditoria senza idee, ma basata esclusivamente sullo sfruttamento intensivo, senza tutele e spesso attraversata da veri e propri comportamenti illegali di ogni tipo. Per queste ragioni è anche quella che ha rappresentato la desindacalizzazionee e l’acquiescenza delle generazioni più giovani a queste forme di schiavismo incipiente, dapprima considerate come un momento di passaggio in vista del meglio, sfruttate sulle loro spalle per la retorica anti posto fisso e preludio alla società nuova, poi desolatamente riconosciute come l’unico lavoro da tenersi ad ogni costo sotto il ricatto dei licenziamenti e delle altrettanto continue riduzioni di paga.
Proprio la riuscita dello sciopero, il primo che oltretutto attesta il fallimento delle filosofie del job act, segnala che si è determinata una frattura con questa mentalità corriva con i “valori del padrone”, sotto l’infuriare della disoccupazione, delle ristrutturazioni aziendali e della caduta del welfare familiare. Così c’è stata una risposta positiva all’appello dei sindacati che erano considerati balocchi anacronistici fino a qualche tempo fa proprio dalla stessi scioperanti di ieri. Da notare che la situazione va rapidamente mutando se è vero nel giugno scorso una analoga, anche se meno generale protesta poneva l’accento sulle delocalizzazioni e non sulla logica di sistema.
Disgraziatamente non si può non constatare che questa frattura avviene in totale assenza di una sponda politica in grado di estendere il nucleo rivendicativo dei lavoratori, vittime del modello ultra liberista, dalla specifica vertenza a una nuova e diversa idea di sviluppo. Per cui alla constatazione dello stato di schiavismo e povertà contrapposti a grandi profitti finali, non segue molto alle rituali deprecazioni di turno. In fondo di massacrare il lavoro in nome della competitività ce lo chiede l’Europa, lo chiedono i pescecani delle grandi aziende, lo chiede il piccolo capitalismo opaco e da rapina che si è affermato nell’ultimo quindicennio, lo chiedono i centri finanziari e lo chiedono indirettamente quelle forze ingenue che non contestano il modello, ma solo la sua gestione. Dunque in un modo o nell’altro, consapevolmente o meno, finisce per chiederlo anche tutto l’arco politico, mentre l’informazione di regime si limita alle notazioni folkloristiche, anzi trova spazio per l’ironia nel bollettino renziano chiamato Repubblica.
Pochissimi sembrano cogliere la novità delle vittime che cominciano a mangiare la foglia riguardo alla loro condizione e ancora meno paiono pronti a vedervi i segni di una possibile rinascita, anche se non soprattutto per la sinistra. Anzi ho tutta l’impressione che le vecchie elite temano di essere scalzate dalle loro nicchie, minime ma accoglienti, i nuovi potenziali protagonisti siano aggrappati alle poltrone mentre le fasce più radicali dimostrino un certo smarrimento per ciò che non arriva direttamente dall’antagonismo o dalla fabbrica. Così è: il telefono squilla, ma nessuno va a rispondere.