Squilli
Il bar era una merda. Ma l'importante era stare lontano dai pensieri.
Chiesi un drink al bancone, volteggiai sullo sgabello girevole per dare un'occhiata intorno: l'arredamento era composto da sedie di legno e barili che fungevano da tavoli, avete presente l'originalità? Quelli del locale, no.
Il ceffo facente funzioni di barista mi allungò lo scotch che avevo ordinato e arraffò la banconota che avevo messo sul pianale di legno, poi si sistemò la maglietta bianca aderente, per coprire la parte inferiore della pancetta.
Mi squadrò: "A posto?"
Presi il bicchiere: "Per ora sì."
Non aggiunsi altro, nemmeno lui. Lanciò un'occhiata all'unica altra persona sugli sgabelli, una brunetta con delle belle gambe, e forse anche un discreto culetto. Ma, nonostante i calzoncini aderenti, non era facile capirlo, dato che stava seduta.
Visto che la tizia aveva già la sua bevuta e che io ero stato appena sistemato, il barista tornò alle sue faccende, riprese a lucidare una statua di bronzo, un airone, che stava di fianco alla cassa.
La donna mi sorrise, forse il fatto che la guardassi le aveva fatto pensare che fossi in cerca. Ma l'unica ragione per cui la fissavo era il suo profumo: la bettola puzzava di sconfitta, ma l'odore della roba che si era data l'avresti fiutato anche senza il naso.
E comunque, in cerca, lo si è sempre quando si va in un bar, anche quando non se ne è consapevoli, tanto succede qualcosa che te lo rammenta, come lo sguardo di lei.
Attaccai bottone, spostandomi al posto vicino al suo, stavo rischiando di giocarmi l'olfatto. Ci misi qualche battuta per risultare divertente, niente di banale, ma nemmeno di inedito: frasi brillanti vagliate dalla statistica.
Quella mi ascoltava, ammiccando a tutto spiano. Aveva una bella bocca e lo sapeva; i capelli corti, castani e mossi, facevano risaltare quei lineamenti sensuali. Quando azzeccavo un'uscita simpatica, scoppiava in delle risate sguaiate.
Magari urla anche quando scopa, pensai.
Tra un atto e l'altro, giocava con un ciondolo che portava al collo, a forma di occhiali da sole, una patacca inguardabile. Decisi che, se fossi riuscito a portarmela a letto, avrei trovato una scusa per farglielo togliere.
Pagai il conto. Certo, anche il suo. La parità dei sessi si era fermata ad un metro dalla cassa.
"Andiamo da te?" mi fece lei.
"Sicuro, ho la macchina..."
Il telefono del bar squillava già da qualche secondo, ma quando sei tutto preso, con l'uccello che ti fa da bussola, non stai a sentire quello che accade intorno.
"Gina!"
Era il barista: "E' tuo figlio."
"Cazzo..." imprecò, frugando nella borsetta. Tirò fuori un cellulare sul cui display intravidi diverse chiamate.
"Scusa, è quel bamboccio" disse seccata "otto anni e non riesce a stare da solo a casa di sera."
Andò a rispondere, portandosi via la mia libido con quell'ultima frase, roba da campionato mondiale di stronzaggine. E' sempre stato più forte di me, ci sono alcune donne, non importa quanto belle, che tra sbattermele e prenderle schiaffi, sceglierei la seconda opzione. Perché non prenderle a schiaffi mentre me le sbatto? Non vorrei si divertissero.
La osservai mentre parlava stizzita, gesticolando e fissando in basso davanti a sé, con gli occhi stretti.
Guardai il mio orologio da polso. Quando uscii, lei stava ancora rimproverando il ragazzino, nemmeno si era accorta che me ne stavo andando. E sì, vedendola in piedi, notai che aveva proprio un bel culetto.
Tornai a casa e presi carta e penna, ritrovandomi solo, come al solito.