Nell’estate del 2010 è uscita in Germania l’ultima fatica di Christa Wolf, edita da Suhrkampf Verlag.
Sul retro della copertina si legge “Romanzo”. In realtà è un non-romanzo di 415 pagine, dal taglio autobiografico.
La trama è esile e si rifà a un episodio della vita dell’autrice.
Nel 1992 Christa Wolf ottiene un fondo di ricerca presso il Getty Center (“Center”, nel testo), quando in Germania scoppia lo scandalo di una sua presunta collaborazione con la Stasi in qualità di IM, “Informeller Mitarbeiter”, “collaboratore informale”.
Nella realtà letteraria, questo episodio è solo il pretesto per esporre una lunga serie di ricordi, di meditazioni e tutto ciò insomma che fin dalle prime pagine la narratrice chiama “mit sich ins Reine kommen wollen”, voler fare i conti con se stessa.
Questo taglio esistenziale è però inscindibile da una prospettiva storica e sociale, quando è un personaggio così impegnato - e impegnativo - come Christa Wolf “a fare i conti con se stessa”.
Non si può scindere infatti la delusione personale del personaggio Wolf con il destino della sua patria, cioè la Ex DDR.
Mi ricordo bene il tempo in cui mi sforzavo di non dover essere tedesca.
Fare i conti con se stessa diventa qualcosa di più di un impegno umano fondamentale e comune a tutti. Per la Wolf diventa fare i conti con la dipendenza e l'assuefazione all'ideologia antilibertaria (nera e rossa), fare i conti con il senso di colpa. Ma fare i conti con queste tare che da psicologiche diventano di una nazione (o viceversa) può significare affrontare le tematiche della dissidenza, dell’esilio, dell’emigrazione.
Weimar unter den Palmen - Weimar sotto le palme
Il soggiorno a Los Angeles stimola dunque i ricordi di Christa Wolf.
Li stimola per analogia e opposizione.
Per analogia: ancora una volta uno scrittore tedesco approda in California. La Wolf segue la scia dei suoi illustri predecessori, altri esiliati sul suolo statunitense e lo fa con coscienza e volontà, dal momento che li cita ampiamente nel testo: Thomas Mann, Bertolt Brecht, Leon Feuchtwanger, Adorno, Marcuse...
Ma soprattutto Bertolt Brecht e la sua opera, in particolare Galileo, ritornano quasi come un'ossessione nel testo.
È evidente che Brecht viene considerato una figura chiave, un punto di riferimento morale e letterario.
Si ha quasi la sensazione che questa ossessione nei confronti del Maestro celi un'ammissione di colpa per non aver saputo mantenere fede ai propositi da lui indicati.
Per opposizione: il benessere palese, diciamo pure il lusso, la situazione privilegiata della narratrice stessa la portano per opposizione a considerare la povertà e le ristrettezze invece patite durante il regime, la mancanza di ogni bene, ma soprattutto della libertà - in fin dei conti la protagonista si trova a Los Angeles non perché esiliata, ma come destinataria di una borsa presso un celebre istituto di ricerche, vive in una suite spaziosa, si intrattiene con i suoi colleghi scienziati, o studiosi, è spesso invitata a cena da ricercatori sulla storia ebraica...Questo è forse il punto debole del testo, ciò che può in teoria distogliere l'attenzione del lettore in maniera irritante, se non fosse per lo spirito solido, ben piantato per terra di Christa Wolf, che la porta a criticare ampiamente la mentalità consumistica dell’ “Occidente vincitore”.
Per opposizione si sciorinano dunque una serie di episodi, anche della più banale quotidianità, in realtà micronuclei tematici.
Mémoires o confessioni
Più che romanzo, insomma, ci si rende conto ben presto di trovarsi di fronte a un’opera a metà fra mémoires e confessioni.
E' un testo pieno di ossessioni, di domande irrisolte e irrisolvibili: sulle legittime aspirazioni personali, individuali e la loro inevitabile delusione, sulle aspirazioni di un popolo, dei suoi poeti e artisti, puntualmente disattese nella maniera più tragica.
Un lungo ricercare, un continuo divagare apparente, in realtà concatenazione di meditazioni, di discussioni con altri personaggi (fondamentale è il personaggio di Peter Gutman, quasi il suo alter ego) in cui si cerca di analizzare fino in fondo i “perché” di questa delusione.
La delusione innanzitutto nella potenza della civiltà. È un vecchio adagio che “il sonno della ragione genera mostri”. La Wolf ci offre questa parafrasi: le speranze di una civiltà possono generare mostri.
“[..] Chiamai Peter Gutman. Com'è successo, gli chiesi, che la nostra civiltà abbia generato mostri. La vita impedita, mi rispose. Cos'altro. Vita impedita. Non so, dissi, forse noi siamo in origine dei mostri? Una tempesta spazza via i paradisi, disse Peter Gutman. E questa spinge davanti a sé l'Angelo della Storia che fugge a ritroso. Ma non ne fa un mostro. Eppure dietro non ha occhi, gli risposi. No, disse Peter Gutman. Più semplicemente: è cieco.
Cieco alla storia, dissi.
Cieco alla paura, se preferisce, Madame.
[..]
La ricerca del paradiso ha portato per lo più all'installazione dell'inferno. È questa una legge incontrovertibile? Che sarebbe da osservare. Sarebbe inoltre da considerare, perché la credenza qui diffusa, che per ogni problema ci sia una soluzione, per ogni male un antidoto, per ogni dolore un sollievo e per ogni malattia una cura, testimoni un senso di irrealtà, anzi di impotenza e possa facilmente tramutarsi in pazzia. [..]”
Ecco ad esempio i ricordi degli anni passati nelle biblioteche di Weimar o di Jena, gli anni in cui si credeva nell'ideologia, nella critica marxista. La fede nel cambiamento radicale, in una parola, la ricerca di una società perfetta, di un paradiso in terra. Uno stato popolato non da uomini ma da angeli.
Gli angeli non esistono e chi ha voluto e creduto in uno Stato degli Angeli ha in realtà creato uno stato infernale. L'unico Stato o meglio Città degli Angeli su questa terra è Los Angeles, il campione dell'opposta "ideologia".
Paradossalmente, medita Christa Wolf, la civiltà, la cultura, la letteratura stessa nascondono la violenza: non sono civiltà, non è cultura di pace, né ad Est, nella terra dei vinti, né ad Ovest, nella terra dei vincitori.
La battaglia per le idee si è fatta e si fa con i coltelli, così dice il suo alter ego Peter Gutman, uno scienziato dal pessimismo caustico con cui il personaggio Wolf si intrattiene quasi ogni sera.
Si potrebbero raccontare ancora tanti altri episodi, si potrebbero citare ancora tanti altri personaggi evocati dalla memoria della narratrice (Schönberg, Osip Mandelstam, Solzenitsyn, ad esempio), di cui è costellato questo non-romanzo.
La prima impressione che si ha leggendo questo lungo fluire di ricordi, queste domande sempre ricorrenti, queste ossessioni che sbucano ad ogni pagina è la staticità.
In realtà questa staticità è solo apparente: la Wolf scava sempre più dentro se stessa e dentro la Storia, come una spirale, magnetizzando l’attenzione fino ad arrivare, a circa metà del libro, a una importante presa di coscienza.
The Overcoat of Dr. Freud - Il soprabito del dottor Freud
Di tanto in tanto e all’improvviso il soprabito del Dr. Freud perde dalla sua fodera interna degli oggetti che si credevano dimenticati.
È la memoria involontaria, o meglio è il ritornare alla luce di ciò che è stato rimosso da tempo e che si credeva ormai passato per sempre.
La Wolf a questo punto si chiede : potrà mai essere che mi venga rubato questo cappotto magico?
E se anche succedesse, cosa vorrebbe mai dire? Che “voglio” perderlo? Di modo da non doverlo più vedere appeso alla mia porta, di modo da non dover più vedere gli oggetti che perde?
Wolf qui ammette a questo punto del testo la necessità dell’ossessione.
Ossessione e memoria come le due facce di una stessa medaglia: L’Ossessione fa male, ma la Memoria è necessaria.
Abschied – Addio
Fin qui le meditazioni, le mémoires scorrono in un lungo monologo, dallo stile colloquiale e asciutto, interrotto da resoconti di visite a parti della città, o di cene e incontri con altri beneficiari del fondo di ricerca.
Nelle cento pagine finali, a partire dall’episodio in cui Christa cade vittima di un forte stato febbrile che la porta al delirio, assistiamo a uno sprint narrativo, dove si raggiunge un punto di ebollizione, dove la narrazione assume un tono più visionario e più suggestivo.
È infatti a partire da questa sezione del non-romanzo, che entra in scena un angelo vero, Angelina - in realtà la cameriera ai piani emigrata dall’Uganda del MS. Victoria, dove alloggia la narratrice.
Con Angelina, in compagnia di un angelo cioè, la narratrice compie il lungo viaggio nel Grand Canyon, come chiusura del soggiorno californiano.
Il racconto di questo viaggio è forse tra le pagine più riuscite dell’intero non-romanzo.
È l’addio alla California, ma anche l’addio - voluto, sperato, o realizzato - di una grande donna che ha vissuto tanto, ma non tanto abbastanza da riuscire a scrollarsi di dosso il peso dei propri ricordi dolorosi e ossessivi, e il peso della sconfitta della propria ideologia.
È l’augurio in fondo di una pace, di una spensieratezza finale, che la protagonista non ha mai conosciuto.
Così si chiudono le ultime emozionanti pagine di Der Stadt der Engel, con la sensazione di aver letto un testamento da parte della Wolf ottantenne. Una resa dei conti con se stessa e con la Storia violenta della sua Germania che non ha soluzioni se non l’addio ovvero la morte, esposta con uno stile coinvolgente, dai molti registri - colloquiale, autoironico, visionario - e che commuove spesso per la quantità di sincera ricerca umana e storica che trasuda dal testo.
“Death Valley. Sì, così mi sono sempre immaginata i deserti, montagne di sabbia brillanti e senza fine. Alla stazione di servizio i cartelli di avvertimento, di non avventurarsi mai da soli nel deserto, né a piedi né in macchina, e mai senza risorse d’acqua. Ogni anno gli si offrivano sempre vittime sacrificali.
La valle della Morte. La valle dei Morti. Laggiù ci sono tutti, tutti i miei Morti, e si tormentano nelle loro tombe, mentre passo loro accanto. Guarda, dice Angelina. Da quanto tempo mi è stata vicina? Da quanto tempo volavamo in quel paesaggio? Pensavo, forse i morti volevano dirmi qualcosa.
Angelina, che leggeva i miei pensieri, disse: No. Questa è una falsa credenza dei viventi, che i Morti abbiano un messaggio per loro. Quand’erano in vita, non erano loro stessi più intelligenti, dei viventi di oggi.
Nella morte non si impara nulla. Triste, pensavo.
Angelina non prestava attenzione agli umori. Non voleva proprio sapere, se io avessi paura del sinistro potere d’attrazione dei Morti.
Passammo volando la costa. L’incomparabile sensazione del viaggio, con Angelina accanto a me.
Sapevo bene, che si trattava di un addio. Anche se una meta è raggiunta, Angelina, perché manca sempre la sensazione del compimento? Una parola mi venne alle labbra, una parola che da settimane avevo cercato senza saperlo: provvisorio.
Una meta provvisoria porta a un compimento provvisorio.
Angelina rise: Ma non è sempre così, no?
Passammo dal confine a nord direttamente nello smog denso della periferia di Los Angeles.
(..)
Le mie ossessioni non mi tormentavano più. Ora per la prima volta in sogno - in sogno, Angelina!- avevo un’idea di cosa doveva trattarsi. Di cosa sarebbe dovuto trattarsi. La Terra è in pericolo, Angelina, e quelli come noi si preoccupano di non venirne danneggiati nell’anima.
Queste sono le uniche preoccupazioni, che hanno una ragione d’essere, disse Angelina, perché tutte le disgrazie nascono da lì. Il vento le arrovesciava i capelli. È bello il nero, dissi, dopo che l’avevo contemplato a lungo al suo fianco.
Ci avvicinammo a Venice. Riconobbi gli edifici, le strade piccole, le piazze sulle quali si esibivano gli artisti di strada, anche oggi. Davanti a noi si stendeva l’arco immacolato della baia da Santa Monica a Malibu. (..)
Non dovrei compiere un arco, un giro tutt’attorno a me stessa, ora? dissi. Per ritornare all’inizio?
Fallo, disse lei imperturbabile.
E gli anni passati a raggiungere le mie mete? Devo gettarli al vento, così?
Perché no?
La vecchiaia, Angelina, la vecchiaia lo vieta.
Angelina non aveva alcuna idea della vecchiaia. Aveva tutto il tempo del mondo. Voleva trasmettermi la sua spensieratezza. Voleva che io gustassi questo viaggio. Voleva che io guardassi in basso e, prendendo commiato, fissassi per sempre nella mente la grandiosa linea della baia, le sue onde bianche e schiumose, che si abbattevano sui porti, le linee di sabbia davanti alle strade costiere, le file di palme e l’oscura catena montuosa nello sfondo.
E i colori. Ah, Angelina, i colori! E questo cielo.
Sembrò contenta, e passò via in silenzio, con me al suo fianco.
Dove siamo dirette?
Questo non lo so.”
Christa Wolf, Stadt der Engel oder The Overcoat of Dr. Freud
Suhrkampf Verlag, 2010