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Stagione olimpica a Vicenza
Quando vado ad assistere alla stagione olimpica a Vicenza, divento estremamente snob e abitudinario. Eccomi quindi arrivare almeno con mezz’ora di anticipo, parcheggiare sempre nello stesso posto, prendere un caffè in piedi al caffè dell’Opera subito dopo aver ritirato i biglietti al botteghino e subito prima di entrare in teatro; e mentre partecipo alla rappresentazione spengo con reverenziale devozione il cellulare e desidero non essere disturbato da chi mi sta attorno. Elitarismo culturale, è chiaro: ma è un capriccio che mi prendo poche volte in un anno. È evidente, dunque, che il mio gusto a proposito della rappresentazione sia dedito al classicismo più becero: non amo sperimentalismi in questa sede, perché li ritengo poco opportuni nella cornice formale dell’Olimpico. Lascio le Ifigenie vestite da cavallerizze e gli Ercoli con fari da stadio all’apprezzamento di altri.
Per questi motivi, domenica 26 settembre non ero felice. L’Oreste, regia di Yannis Hourvadas, prodotto dal Teatro Nazionale Greco, era preannunciato come uno spettacolo con scelte sperimentali, costumi contemporanei e, quel che è peggio, un coro di ragazzi con zainetti e cellulare. Oltretutto lo spettacolo era in greco moderno con sottotitoli a lato. Per completare il quadro, a Vicenza c’era il blocco del traffico: m’ero già preparato a uscire dal teatro in preda a convulsioni e fremiti di rabbia. E invece.
A luci ancora accese, nell’indifferenza generale, sono entrati in scena in gruppo di turisti greci (in realtà, gli attori del coro). Si sono fatti delle foto, hanno osservato le statue della scenografia, si sono abbracciati, hanno fatto gli sciocchi. Gli spettatori, poco alla volta, si sono fatti silenziosi. Proprio mentre stavano per andarsene, è arrivato Oreste (Nikos Kouris), e si è buttato al centro della scena. Loro hanno reagito del modo più ovvio: prendendo in giro questo pazzo scatenato. E così pure hanno riso quando Elettra (Stefania Goulioti), la sorella, ha spiegato con parole poco comprensibili quanto era accaduto. Ma nel momento in cui ha parlato del suo dolore profondo, e dell’orrore successo alla sua famiglia, i ragazzi si sono impensieriti; hanno smesso di ridere; l’hanno ascoltata. E noi con loro. La lontananza di quella vicenda non c’era più. Anche noi eravamo sulla scena, anche noi ascoltavamo le vicende seguite alla caduta di Troia. Ecco il senso profondo del coro: commento alla vicenda, profonda partecipazione e commozione. Pietà (eleos, eleos, ha gridato ad un certo punto Elettra). La nostra e la loro presenza è diventata sempre più tangibile e sentita, il coro ha assunto i toni che gli erano propri e quindi le parole di Euripide.
Colpiva una recitazione plastica, pregna di fisicità, come a volte non ho visto negli italiani; la sofferenza dei visi, delle mani, dei piedi passava oltre la barriera linguistica e colpiva dritto alla carotide, a metà tra il cervello e il cuore. Forse la lingua era mezzo di avvicinamento all’originale spirito del greco antico. Ogni attore sembrava impersonare, anche con la presenza, lo spirito del personaggio: la calvizie di Menelao (Akyllas Karazisis), per dire, era perfetta a commentare la sua viltà e la sua mancanza di senso dell’onore. Sull’autobus, di ritorno, non è giunta la catarsi, ma ho provato comunque un senso di piacere in gran parte intellettuale.
PS: due posti più in là rispetto a me c’era Alessandro Gassman. Anche lui sembrava aver molto apprezzato. Ma non gliel’ho chiesto.
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