Caro Lettore,
a te che come me stambureggi oggi nell’era postferragostiana delle città decibellizzate da pale e da motorini frignanti, martoriato e con l’occhio pesto, il sonno abbondante che non hai avuto e la correttezza fraterna che non hai ottenuto dal ventilatore tuo sfratello anche lui forte di ritmi e di stornelli dell’era dei manicomi ossessionati da dipendenza percussiva, regalo l’inno dello stambureggiamento dal suo padrino riconosciuto, Il tamburo di latta di Günter Grass (Feltrinelli):
«Oggi Oskar dice semplicemente: la falena stamburava. Ho udito stamburare conigli, volpi e ghiri. Stamburando le rane possono far venire il temporale. Del picchio si vocifera che stamburi i vermi dai loro buchi. Infine l’uomo batte sui timpani, piatti, grancasse e tamburi. Si parla di pistole a tamburo, di fuoco tambureggiante, a suon di tamburo si scaccia qualcuno, si raduna qualcuno, si manda qualcuno alla tomba. A farlo sono tamburini, tamburmaggiori. Ci sono compositori che scrivono concerti per archi e percussioni. Posso rammentare la ritirata e il silenzio, anche i tentativi sin qui compiuti da Oskar; ebbene, tutto ciò è nulla in confronto all’orgia percussionistica che in occasione della mia nascita la falena ha promosso su due banali lampadine da sessanta watt. Magari ci sono dei negri nel più nero dell’Africa, o altri in America che non hanno ancora dimenticato l’Africa, magari queste persone ritmicamente organizzate saranno capaci, più o meno come la mia falena o imitando falene africane - che notoriamente sono ancor più grandi e formidabili delle falene dell’Europa orientale -, di stamburare con disciplina e sregolatezza; io mi attengo alle mie misure esteuropee, mi attengo dunque alla falena di media grandezza e incipriata di marròn della mia nascita, la nomino maestra di Oskar» (p. 43).
Magazine Palcoscenico
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