Notizie ingigantite quando conviene oppure, se è il caso, ridotte ad una “breve”. O addirittura fraudolentemente nascoste. Pubblicità e marchette travestiti da pezzi di giornalismo. Da tempo Beppe Grillo denuncia sul suo blog il degrado e la lottizzazione dell’informazione in Italia, dove ormai la strumentalizzazione delle notizie di stampa è diventata la norma, complici tanti cittadini rassegnati che tendono a bersi senza fiatare qualsiasi frottola raccontata dai giornali e dalla tv. Grillo avrà modi che non piacciono a tutti, ma spesso ha ragione. Nel mondo dell’informazione italiana i posti di comando sono ancora affidati nella maggior parte dei casi a chi ha il benestare dei partiti e delle lobby. E’ difficile trovare giornalisti autorevoli e veramente liberi dai vincoli come lo erano i grandi maestri del passato. Le grandi firme della stampa odierna, quelle che pilotano l’opinione pubblica con i loro editoriali in prima pagina, scrivono tante belle parole, sono maestri della consecutio temporum e dell’arte di imbonire la gente. Ma, chissà perché, nessuna delle loro parole scalfisce minimamente gli interessi economici dei loro maggiorenti. Un po’ come i rivoluzionari articoli di certi editorialisti, che la fanno tanto complicata per dire a volte incredibili banalità.
Il risultato è che l’Italia non si schioda dal sessantanovesimo posto nella graduatoria mondiale per la libertà di stampa dopo la Guyana e prima del Benin. Il pluralismo dell’informazione è solo un modo di dire da rispolverare nelle tristi occasioni, le condoglianze di circostanza che la politica e il sindacato dei giornalisti pronunciano sistematicamente quando muore una testata e nuovi lavoratori se ne vanno a spasso.
La libertà della stampa
Eppure di quella libertà stampa e di quel pluralismo dell’informazione sembra non gliene freghi niente a nessuno. Alla maggior parte dei cittadini la stampa va bene così. Basta che i giornali scrivano quattro paginate sul Milan, sulla Juve o sul Cagliari con le pagelline dei giocatori, le ultime di calciomercato e qualche intervista sui prossimi appuntamenti e sugli schemi del mister, e va bene così (con il massimo rispetto per il lavoro dei bravi giornalisti sportivi).
L’articolo di colore sulle docce gelate dei vip riesce a soddisfare la brama di verità e di informazione degli italiani ghiotti di gossip.
Lo stesso vale per la tv: ore ed ore a sentire opinionisti che discutono sugli schemi calcistici, 4-4-3 o 5-4-4?, spiegati con tanto di bacchetta, come faceva il compianto colonnello Bernacca.
Per la politica, poi, ci sono i talk show televisivi. Se sei di sinistra sintonizzi su RaiTre, se sei un po’ più a destra giri su RaiUno, dopo la fiction. Ognuno ha la sua verità e i suoi ospiti fissi che si urlano addosso senza far capire nulla ai telespettatori.
Ma della libertà della stampa e del pluralismo dell’informazione sembra non importi più nulla neppure agli stessi giornalisti. La paura di perdere il lavoro ha messo il bavaglio un po’ a tutti: chi ha un lavoro a tempo indeterminato nelle testate tende a non contraddire la linea editoriale della direzione per non mettere a rischio il posto e la carriera (va molto di moda la filosofia del “fattilicazziutua” del Razzi crozziano). Meno che mai possono alzare la testa i collaboratori precari, che continuano a sfornare articoli pagati pochi euro nella speranza (spesso illusoria) di una sistemazione definitiva.
Una situazione ancor più drammatica, questa, nel mondo della stampa locale. Come in Sardegna (vedi anche questo post), dove da anni si combatte una lotta tra poveri per accaparrarsi i pochissimi posti di lavoro a disposizione (vedi anche questo post).
Fortunatamente, oltre che dalle grandi firme superpagate, la nostra informazione è fatta anche da tanti giornalisti che fanno onestamente e con passione il loro lavoro. Ma quanti di loro riescono ad essere veramente liberi?
Spesso gli episodi di giornalisti coraggiosi capaci di dire no si consumano nel silenzio (e nell’omertà) delle redazioni. Ma altre volte escono allo scoperto, dando nuova luce e credibilità a tutta la categoria.
Qualche giorno fa, ad esempio, è scomparso Federico Orlando, che rifiutò insieme al grande Indro Montanelli di supportare dalle pagine de Il Giornale (di cui i due erano rispettivamente condirettore e direttore) le gesta politiche del neo politico Silvio Berlusconi, andando via dal giornale e fondando con lo stesso Montanelli La Voce, esempio breve ma molto luminoso di stampa libera.
Altro esempio: nel maggio 2010 la giornalista cagliaritana Maria Luisa Busi lasciò la conduzione del TG1 scrivendo una lettera di fuoco indirizzata al direttore Augusto Minzolini di cui aveva contestato la linea editoriale.
Quanti giornalisti avrebbero avuto il coraggio di rinunciare alla conduzione del telegiornale delle 20 su RaiUno, la rete ammiraglia di mamma Rai?
In quella lettera accorata, che qui si riporta nella sua versione integrale, la Busi parlava di colleghi rimossi dagli incarichi o comunque emarginati per avere espresso le loro idee. Parlava di un’informazione parziale e di parte. Di un giornalismo che dà più importanza agli editoriali astratti e all’infotainment che alla descrizione del Paese reale, che vive e che soffre e vorrebbe essere raccontato con più attenzione dai media.
Un po’ come la politica, che parla tanto di grandi sistemi e di riforme epocali, ma non riesce mai a calarsi nei problemi veri della gente.
Scriveva la Busi quattro anni fa:
L’Italia che vive una drammatica crisi sociale è finita nel binario morto della nostra indifferenza. Schiacciata tra un’informazione di parte – un editoriale sulla giustizia, uno contro i pentiti di mafia, un altro sull’inchiesta di Trani nel quale hai affermato di non essere indagato, smentito dai fatti il giorno dopo – e l’infotainment quotidiano: da quante volte occorre lavarsi le mani ogni giorno, alla caccia al coccodrillo nel lago, alle mutande antiscippo.
Oggi la linea editoriale del TG1 che, come scriveva Maria Luisa Busi, allora rischiava di compromettere la credibilità della testata (in quel periodo ci furono dure contestazioni ai giornalisti Rai), è cambiata, ma si può dire che in Italia l’informazione abbia smesso di “privilegiare la comunicazione all’informazione e la propaganda alla verifica“?
Si può veramente dire che all’interno delle redazioni sono state finalmente ripristinate la dialettica democratica e la libertà di opinione, oppure siamo ancora nei tempi del “pensiero unico” dove chi non la pensa come il capo è fuori?
E ancora: è acqua passata la brutta abitudine di certi mezzi di informazione di attaccare chi dissente per screditarlo e indebolire ciò che dice? O è sempre in vigore il celebre “metodo Boffo”?
E’ più probabile che tutte queste problematiche siano ancora attuali e che il dibattito sulla mancata libertà di informazione, che Beppe Grillo denuncia sistematicamente dal suo blog, sia veramente una delle priorità del nostro Paese insieme alla mancanza di lavoro. E che, come scrive Maria Luisa Busi nella lettera all’ex direttore Minzolini, nel giornalismo italiano occorra maggiore rispetto: per le notizie, per il pubblico, per la verità.