“Siamo giornalisti, non impiegati statali. Il nostro dovere non è quello di nascondere i segreti sporchi dello Stato ma di richiamare alle loro responsabilità coloro che gestiscono il potere in nome del popolo”. Così scrive Can Dundar, direttore del quotidiano di opposizione Cumhuriyet, dopo essere stato accusato di “spionaggio” dal legale del Presidente Erdoğan per aver pubblicato, lo scorso venerdì, immagini di armi destinate ai ribelli siriani (alias jihadisti) a bordo di camion scortati dai servizi segreti turchi del Mit.
Pochi giorni dopo l’anniversario delle proteste di Ghezi Park del 2013 e a ridosso delle elezioni parlamentari turche, che alcuni temono andranno a velocizzare la conversione della Turchia da repubblica parlamentare a presidenziale, torna ad accendersi la miccia tra il governo e la stampa.
Quest’ultima, secondo Reporters Without Borders, avrebbe una libertà di opinione tanto limitata da meritare il 154esimo posto su 180 paesi presi in esame, e non sarebbe nemmeno la prima volta che il governo dell’Akp si trova con i bastoni tra le ruote a causa dei media.
Per questa ragione, infatti, dal 2007 in poi si sono susseguite nel paese regolamentazioni del web che hanno portato alla chiusura di più di 60.000 siti internet, alla chiusura temporanea di Twitter e della piattaforma musicale Soundcloud, dopo la diffusione di alcune intercettazioni tra Erdoğan e suo figlio nell’ambito dell’inchiesta per corruzione di dicembre 2013.
Il pretesto di voler censurare siti ritenuti “pericolosi per la sicurezza nazionale” è poco compatibile con l’ondata di arresti che si è perpetuata nel dicembre 2014 a danno di decine di giornalisti con l’accusa di affiliazione ad attività terroristiche.
E se già il quotidiano Cumhuriyet se l’era vista brutta lo scorso gennaio, quando aveva pubblicato la copertina verde di Charlie Hebdo post attentato, scatenando reazioni violente, manifestazioni per le strade e tempeste di tweet (“#ÜlkemdeCharlieHebdoDağıtılamaz”, Charlie Hebdo non dovrebbe essere distribuito nella mia nazione), ora che ha palesato e concretizzato in pixel l’ambiguità del governo turco nella questione siro-irachena, cui diversi osservatori avevano peraltro alluso già in passato, si può solo immaginare come andrà a finire.
Tanto per cominciare, Erdoğan ha fatto la voce grossa sull’emittente radio nazionale TRT, dicendo che il giornalista responsabile della pubblicazione del video “l’avrebbe pagata cara” e promettendo azioni legali, come la richiesta dell’ergastolo per il colpevole. Che la politica del presidente fosse poco aperta al dialogo già si era capito, ma prendere pubblicamente provvedimenti così gravi contro il direttore di Cumhuriyet significa minare ulteriormente la propria credibilità internazionale, già erosa dalla sua ambiguità in politica estera.
D'altronde, Erdoğan sa di non correre davvero il rischio di una mobilitazione delle cancellerie occidentali né tanto meno di un isolamento da parte loro (la Turchia è pur sempre un Paese membro della Nato), e ha finora sempre reagito sprezzante alle proteste molto timide contro le violazioni alla libertà di stampa sollevate dalla Ue, come quando invitò quest'ultima a occuparsi degli affari propri.
Prima della “Primavera Araba” la politica estera turca era infatti basata sul principio di “nessun problema con i vicini”; negli ultimi anni, tuttavia, forte del consenso occidentale che vedeva in essa un modello di paese musulmano “occidentalizzato” e “repubblicano” da importare in Medio Oriente e in Nord Africa, la Turchia ha deciso di giocare la sua parte nella questione mediorientale.
L’effetto, tuttavia, era stato quello di deteriorare le relazioni con la Siria di Assad, ma anche con i suoi alleati, in primis l’Iran e l’Iraq a maggioranza sciita di al-Maliki, e in secundis con l’Egitto di al-Sisi, tant’è che ad oggi Ankara ha perso la sua influenza politica e non ha ambasciatori né a Damasco né al Cairo.
La debolezza diplomatica in Medio Oriente non si è però tradotta in una resa: anzi, il leader turco e il suo governo a maggioranza sunnita sono stati spesso accusati di contribuire alla crisi siriana in modo militare e concreto, prima fornendo supporto ai gruppi jihadisti siriani (come al-Nusra) per agevolare la caduta dello sciita Bashar al Assad, poi favorendo il passaggio dei foreign fighters verso la Siria e l’Iraq, senza monitorarli né bloccarli, o ancora rifiutandosi di aiutare i curdi del Pkk impegnati nel conflitto a Kobane contro l’Is.
Questa è l’immagine più grave della Turchia odierna, quella di numerosi carri armati stanziati al confine con la Siria che osservano i combattimenti a Kobane senza muovere un dito, e anzi impedendo ad altri curdi di raggiungere i loro connazionali nella difesa della città. Questa è l’immagine che mesi fa si pensava fosse sufficiente affinché le Nazioni Unite e l’Occidente condannassero Erdoğan, ma esattamente come i carri armati turchi, anche il nostro amato ovest democratico è rimasto immobile a osservare la scena dal confine.
Così succederà anche ora, dopo la pubblicazione di quei video incriminanti da parte del quotidiano Cumhuriyet, perché la paralisi del mondo verso il Medio Oriente è contagiosa e cessa di esistere solo negli scandali.
Elle Ti
@twitTagli