Forse ci si aspettava qualcosa in più dal remake dell’omonimo film di Giuseppe Tornatore del 1990, protagonista l’indimenticato Marcello Mastroianni: a questa versione di Stanno tutti bene di Kirk Jones, in cui troviamo l’attore premio Oscar Robert De Niro, sempre straordinario nella sua bravura, ma insufficiente, da solo, a risollevare le sorti della pellicola, sembra mancare l’ispirazione. Si parte da uno spunto di riflessione interessante, come nel film originale : la solitudine di un padre in pensione e vedovo da poco, Frank Goode, il quale, dopo aver dedicato tutta la vita a mantenere i quattro figli per garantire loro un futuro nelle prime fila della società, adesso che la moglie non c’è più, si rende conto che spetta a lui recuperare il rapporto con la famiglia, deteriorato dal poco tempo a disposizione e dalla lontananza geografica.
Nonostante i problemi di salute, parte alla ricerca di David, il più tormentato dei suoi ragazzi, che fa l’artista a New York. Arriva poi senza preavviso a casa di Amy (Kate Beckinsale), un’affermata pubblicitaria di Chicago, e poi da Robert (Sam Rockwell), a Denver, che crede direttore d’orchestra e, infine, da Rosy (Drew Barrymore), che ha realizzato il suo sogno di ballerina a Las Vegas. Piombando all’improvviso nelle loro vite, Frank scopre che non sono poi così felici e realizzati come sua moglie gli aveva fatto credere per non procurargli preoccupazioni, ma che le sue ambizioni di padre – un uomo che per tutta la vita ha ricoperto di pvc i cavi del telefono di un intero Paese, per poi ritrovarsi nella paradossale condizione di incomunicabilità con i suoi cari – sono state a volte eccessive, mettendo a rischio la serenità dei figli. Con loro, tuttavia, dopo un drammatico epilogo, riallaccerà un rapporto sincero, basato sull’onestà del dirsi in faccia come stanno realmente le cose.
Sceneggiata dallo stesso Jones, la storia scorre senza intoppi e si lascia guardare, mentre racconta con malinconia l’amore paterno, arrivando a commuovere in alcuni passaggi, senza però suscitare vera empatia. A parte il messaggio della frenesia dei tempi moderni che rende impossibili le relazioni umane, l’inno alla famiglia come valore insostituibile e la questione delle aspettative riposte nei figli con i relativi traumi esistenziali a seguire, pochi elementi restano impressi: le immagini del viaggio in cui De Niro incontra personaggi di ogni classe dell’America profonda, autentici e credibili, e forse la poesia nella metafora dei cavi del telefono, che mettono in comunicazione annullando le distanze, in sostanza l’aspetto road movie del film. È il modo in cui è confezionata la storia, il sapore un po’ troppo hollywoodiano e standardizzato, a lasciare invece freddezza nello spettatore, anche se nell’universalità della storia di Frank e dei suoi figli – e in tutta la sua “italianità” – si rispecchieranno in molti.
Ilaria Mariotti