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Stardust & co. ritroviamo l’introvabile

Da Ultimafila22

di Giacomo Pagone

<<Pronto?>>

<<Salve, parlo con la Stardust & Co.?>>

<<Sì, signore, in cosa possiamo esserle utile?>>

<<Ho smarrito qualcosa>>

<<Certo, signore siamo specializzati proprio in questo: ritroviamo oggetti smarriti in tutto il mondo. Allora, signore, mi dica, cosa ha smarrito?>>

<<…>>

<<Pronto? Signore, è ancora in linea?>>

<<Uh? S-sì sono ancora in linea>>

<<Allora? Vuole dirmi cosa ha smarrito?>>

<<Un ricordo>>

La giornata non iniziava bene. Betty Latorre, la centralinista della ditta Stardust & Co. era abituata agli scherzi telefonici: da quando avevano messo quell’annuncio sul giornale locale (“Stardust & Co., ritroviamo l’introvabile”), si erano susseguite telefonate di burloni che dicevano di aver smarrito quanto di più strano possibile.

Betty aveva iniziato ad appuntarsi le richieste più assurde, generate dalla crudele immaginazione di molti perdigiorno, sul suo block notes blu, accanto al telefono. Fino ad ora poteva contare: un dinosauro, un granello di sabbia, un occhio di un ciclone, un occhio di bue, una navicella spaziale, la via di casa, la rotta, la pazienza, la faccia nascosta della luna e, proprio il giorno prima, qualcuno aveva telefonato dicendo di aver smarrito il Sacro Graal. Betty, del resto, si divertiva nel sentire fin dove potesse spingersi la noia unita all’immaginazione umana, per questo restava al telefono, annuendo di tanto in tanto, pur di prolungare un altro po’ lo scherzo telefonico. Si poteva anche capirla, poveretta!, seduta tutto il giorno in quel piccolo ufficio, tutta intenta a fare le parole crociate e a leggere romanzi rosa, nell’attesa di una, vera, chiamata da parte di qualche cliente.

<<Un ricordo, certo. E di che tipo?>>

<<Uno bello. Un bel ricordo. Di quando ero bambino. Potete ritrovarlo? Ci riuscirete?>>

<<Ma certo, signore, siamo specializzati proprio in questo>> rispose Betty in tono sarcastico.

<<Sapevo che facevo bene a rivolgermi a voi. Ho letto l’annuncio sul giornale, sa?>>

<<Oh, l’annuncio, sì. Mi lasci un suo recapito, così appena tornerà il signor Stardust la farò richiamare>>

<<NO! Cioè, mi scusi, volevo dire che, no, nessun recapito sarò io a ricontattarvi>>

<<Come vuole signore. Le auguro una splendida giornata>>

U-n r-i-c-o-r-d-o. Fatto. Anche quest’ultima stramberia era stata annotata nel fedele compagno della noiosa giornata di Betty. Tuttavia, quando si dedicò nuovamente alle sue parole crociate, Betty si sentì strana, triste, e il suo ricordo tornò a quella telefonata. C’era qualcosa nel tono di quell’uomo che l’aveva colpita. Tristezza? Non proprio, era qualcosa di più. Rassegnazione, forse. Sì, doveva proprio essere così, malinconica rassegnazione.

Per un motivo o per un altro, affogata nella noiosa routine quotidiana, Betty finì per dimenticare quella strana sensazione, insieme alla strana telefonata che l’aveva generata. Due giorni più tardi, però, mentre era seduta dietro la sua scrivania, lo sguardo perso nel vuoto, i ricci biondi trattenuti a stento dalle forcine tra i capelli, Betty ricordò quella malinconica telefonata. Poco dopo squillò il telefono e lei lo guardò spaventata, sperando o temendo, di sapere chi ci fosse dall’altro lato della cornetta.

<<P-pronto?>>

<<Allora, avete trovato il mio ricordo?>>

<<Con chi parlo? Mi scusi signore ma lei non mi ha dato i suoi dati, noi non possiamo iniziare una ricerca senza i dati del cliente>>

<<Mi chiamo Darwin. Darwin T. Moos. Posso parlare con il signor Stardust?>>

<<Signor Moos…>>

<<Darwin, la prego>>

<<Darwin, vede il signor Stardust non è qui in ufficio, è fuori per lavoro e non tornerà prima di due settimane. Girerà il mondo, in questi giorni, a caccia dei clienti e degli oggetti che ci sono stati richiesti>>

<<Ma lei, lei aveva detto che mi avrebbe fatto richiamare! E poi non c’è bisogno di girare il mondo, io abito qui in città!>> piagnucolò la voce nel telefonò.

<<Sì, signore. Le avevo detto così, ma lei non mi ha lasciato nessun recapito. Il signor Stardust è venuto ieri in ufficio e ha preso gli ordini per due settimane. Se vuole, se mi lascia il suo recapito, la farò richiamare non appena sarà tornato…>>

<<Lei non capisce, non è possibile, lei non capisce!>>

<<Si calmi. Proviamo a cercare una soluzione. Inizi col parlarmi di questo suo ricordo>>

<<Si tratta di una casa. Grande, di mattoni rossi. Ci vivevo con mia madre quando ero un bambino. Ero tanto felice. Credo sia stata l’ultima volta in cui io sia stato felice, sa?>>

<<Capisco>> i bellissimi occhi felini verde smeraldo di Betty, incorniciati da un paio di occhiali dalla montatura cremisi, percorsero rapidamente tutta la scrivania, alla ricerca di una penna con cui prendere appunti. <<Signor Moos, Darwin, posso chiederle di che anni stiamo parlando?>>

<<Di quando ero bambino, gliel’ho già detto>>

<<Sì, ma… si ricorda in che anni è stato un bambino?>>

<<Oh, che domanda! Certo che sì! Dovevano essere gli anni venti o trenta, o dopo la guerra, non ricordo bene, sa?>>

La faccenda si faceva più complicata. La memoria del signor Moos non era perfetta.

<<La prego, lei può trovare quel mio ricordo?>>

<<Darwin, cosa intende con “trovare un ricordo”?>>

<<Restituirmelo, lo voglio, mi appartiene. Da allora non sono più stato felice!>> Betty sentì una voce dall’altra parte della cornetta, quindi il signor Moos si affrettò a congedarsi dicendo che avrebbe richiamato presto. Betty rimase in silenzio, la cornetta celeste del telefono a disco ancora in mano. Poi si decise: si alzò dalla scrivania, prese l’impermeabile e uscì dall’ufficio.

Il toc toc dei tacchi delle sue scarpe rosse, coordinate alla montatura degli occhiali, animava i tristi e grigi marciapiedi della città. Betty non sapeva esattamente dove fosse diretta, sapeva solo che qualcosa, dentro di lei, la spingeva ad agire. Seguendo la scia dei suoi pensieri arrivò all’ufficio anagrafe del comune. Quando aprì la porta, urtò un impiegato grassoccio con i baffi folti, facendo rovesciare il bicchiere di caffè che questi aveva in mano.

<<Oh Harry, perdonami, caro! Non ti sarai mica scottato vero?>> disse in modo civettuolo.

<<No, no, certo che no! Va tutto bene. Come stai Betty? E’ un po’ che non ti si vede più qui!>> rispose il goffo impiegato, massaggiandosi la mano sporca di caffè.

Era evidente che Harry avesse una cotta per Betty. Era evidente a tutti, ormai. Betty, tuttavia, si era ormai abituata alla sua sfrenata noia da single: il lavoro la mattina ed il pomeriggio fino alle cinque, quindi la spesa e la cena preconfezionata consumata davanti ad un quiz televisivo o ad un film strappalacrime. Non che Harry si fosse mai dichiarato, ma, pensava, era meglio così: dopotutto a lei piaceva la sua vita.

<<Ho avuto un po’ di lavoro da sbrigare in ufficio, sai come è!>>

<<Oh sì, sì certo! Cosa posso fare per te?>>

<<Cercavo un indirizzo. O meglio una persona. Il suo nome è Darwin T. Moos>>

Nel frattempo il baffuto impiegato si era fiondato dietro il computer del suo ufficio. La sua scrivania era miseramente addobbata: solo un paio di post-it con i pagamenti in scadenza, qualche foglio scritto a mano e due o tre cerchi formati da un bicchiere di caffè, incrostati sul mediocre legno della scrivania.

<<Uhm…strano! Davvero molto strano!>>

<<Non tenermi sulle spine Harry! Cosa è strano?>> protestò Betty.

<<Beh, vedi, la ricerca mi dà cinque T. Moos, ma nessuno di questi si chiama Darwin!>>

Sconcertata, Betty avvicinò il viso al monitor, sino a toccare lo schermo con la punta del naso.

<<Non è possibile! E’ possibile restringere il campo? Non so, tipo per età? Quello che cerco io è anziano!>>

<<Uhm…sì, ne abbiamo esclusi due, no, tre, ehm uno è deceduto quasi trent’anni fa! Ne restano, dunque, due: Taylor Moos e Tobias Moos, nati rispettivamente nel 1934 e nel 1927. Quale dei due ti serve?>>

<<Io non lo so!>> disse, scoraggiata la povera segretaria. Ma subito si ridestò, colta da una geniale idea. <<Puoi darmi gli indirizzi di entrambi? Vediamo se riesco a cavarne qualcosa>>

<<Ci avevo già pensato, ma c’è un problema: ecco, vedi, Taylor abita in Rivermoon St. 7, ma di Tobias non si hanno più notizie dal…>> e qui fece una lunga pausa durante la quale digitò chissà cosa sulla tastiera del computer.

<<Harry così mi fai morire! Da quando non si hanno più sue notizie?>>

Harry alzò la testa e la guardò incredulo. <<Dal 1942. Qui dice che venne affidato all’orfanotrofio di Oliver Street, in seguito alla morte della madre. Da qui in avanti non si hanno più sue notizie>>

<<Wow, c’è da sperare non sia stato lui a chiamarmi>> ironizzò Betty. Quindi, appuntati i due nomi sul taccuino, salutò Harry, promettendogli una bevuta insieme per ringraziarlo dell’aiuto, ed uscì dal palazzo.

Appena scesa dall’autobus, Betty lanciò uno sguardo al cartello che indicava il nome della strada: Rivermoon St., era nel posto giusto. Iniziò, quindi, a camminare tra le graziose villette che la circondavano su ambo i lati della strada, fino ad arrivare al numero 7. “Dottor T. Moos” recitava il citofono. Un uomo dai capelli bianchi stava giocando a minigolf nel giardino anteriore, proprio vicino ad una vecchia utilitaria verde scuro.

<<Mi scusi, signore, cercavo il Dottor Moos. Sono dell’agenzia Stardust & Co.>> aggiunse, poi, per legittimare la sua presenza.

<<Mi spiace, ma non compro nulla signorina. Ho già tutto quello di cui ho bisogno, dalle enciclopedie ai televisori, dall’aspirapolvere al computer>> rispose seccato il Dottor Moos.

<<Ha frainteso, signor Moos, non devo venderle nulla, né proporle nessun tipo di nuova religione o di attrezzo per la ginnastica>>

Attratto dalla simpatia della donna, l’anziano Moos si avvicinò al cancello.

<<Signor Moos, è stato lei a contattare l’agenzia Stardust & Co.? Voleva che trovassimo la casa della sua infanzia?>>

<<Signorina non so di cosa stia parlando. Vivo in questa casa da quando sono nato>>

<<Oh…quindi…mi scusi, allora! Temo di aver sbagliato persona. Conosce per caso un certo Tobias Moos? E’ un suo parente?>>

<<Mai sentito nominare, mia cara. Mai sentito nominare>> ripeté scuotendo la testa e ritornando verso il suo mini campo da golf.

Una volta incassato il colpo, Betty non perse la speranza. Aveva qualcosa a cui appigliarsi, anche se si trattava veramente di un filo sottile come un capello: l’orfanotrofio di Oliver Street.

Era evidente che fosse stato Tobias a chiamarla. Era l’unico Moos ancora in vita e di una certa età residente nella città. Durante il tragitto in autobus pensò a come si sarebbe presentata all’orfanotrofio. Una volta arrivata davanti al grande portone in legno, i suoi dubbi e le sue paure svanirono. Suonò il citofono e, senza ricevere alcuna risposta, la porta, automaticamente, si aprì.

Betty percorse il corridoio buio fino all’unica stanza illuminata. All’interno una anziana segretaria era presa dalla lettura di uno degli ultimi fotoromanzi ancora in circolazione.

<<Salve, sono Betty Latorre, dell’agenzia Stardust & Co.>>

La segretaria non la degnò di uno sguardo, e Betty notò con orrore un grosso neo peloso che la vecchia segretaria aveva sul naso. Deglutì con fatica, quindi ci riprovò.

<<Vorrei avere delle informazioni circa un vostro…ehm…ospite?>>

<<Signorina Latorre, noi non siamo un albergo. Se vuole adottare un bambino deve prendere un appuntamento con la Direttrice. Il primo giorno a disposizione è il 15 alle 15. Compili quel modulo con i suoi dati e sarà richiamata entro due giorni per confermare l’appuntamento>> rispose stancamente la segretaria, come se recitasse un copione imparato a memoria.

<<No, ecco, non sono qui per adottare un bambino. Ho già due gatti. Poi vivo in un monolocale, beh, non proprio monolocale, però non c’è una stanza per un bambino, o meglio ci sarebbe ma…>> stava divagando. Lo sguardo annoiato della segretaria le aveva fatto seccare la gola. <<Volevo dire che sono qui per cercare delle notizie riguardo ad un ragazzino che è stato portato qui nel 1942>>

La vecchia segretaria la fissò a lungo, senza esprimere alcuna emozione.

<<Sì beh, lo so che lei non è autorizzata, per motivi di privacy o altro, però vede, sono stata contattata da questa persona ma non conosco nulla di lei e…>>

<<Possiamo venirci incontro. Diciamo che io, adesso, telefonerò a mia sorella per farmi dire la ricetta della torta noci e ricotta che lei sa preparare molto bene. Sarò costretta a parlare piano, perché lei non ci sente bene e non mi sbrigherò prima di un quarto d’ora. Quando avrò riattaccato la cornetta lei sarà già fuori da qui, con o senza quello che cerca>>

<<Oh grazie, non so proprio come ringraziarla!>>

<<Beh, l’offerta è libera, ma non sia taccagna. Come dico sempre quella che rischia sono io!>>

Quest’ultima frase fece pensare a Betty che la vecchia segretaria non fosse nuova a questo tipo di “trattativa”. Tuttavia, lei aveva ottenuto quello che voleva. Si precipitò nella sala con su scritto “Archivio” e cercò tutto ciò che poté sul conto di Tobias Moos. Dopo dieci minuti, tutto quello che aveva trovato era un ritaglio di giornale del marzo 1942. L’articolo diceva che c’era stato un incendio in Russel Street, a causa del quale aveva perso la vita la Eveline McIvor, di 42 anni. Il figlio, Tobias, di 15 anni, era stato affidato all’orfanotrofio di Oliver Street.
La prima parte della sua ricerca era completa. Sapeva dove trovare la casa. Ma dove avrebbe trovato Tobias?

Dopo aver lasciato una lauta mancia alla segretaria, Betty corse in strada, quindi camminò sino a Russel Street. Chiese in giro, ma nessuno sapeva nulla né dell’incendio, né di chi fosse Tobias Moos. Quando ormai stava per alzare bandiera bianca, un signore dai capelli e dalla barba bianca le si fece incontro.

<<Ho sentito che sta cercando Tobias Moos, dico bene?>>

<<Lo conosce?>>

<<Lo conoscevo. Prima del…da bambini giocavamo insieme. Abitava proprio in quel palazzo. Dopo l’incendio il palazzo fu ricostruito identico a come era prima. La gente non voleva guardare quella facciata e pensare a ciò che era successo. Così si decise di riportare tutto come era prima e dimenticare presto la faccenda>>

<<Mi dica: dove posso trovare il signor Moos?>>

<<Nell’unico posto in cui è stato negli ultimi settant’anni: all’ospedale psichiatrico di Old Mill Street. Non faccia altre domande, per favore. Ho già ricordato molto più di quanto dovessi. Vada lì, le sapranno dire tutto>> detto questo, il vecchio canuto voltò le spalle e sparì tra le bancarelle di pesce del mercato rionale.

Prima di andar via Betty scattò una foto di quello che era stato il palazzo di Tobias, quindi tornò in ufficio. Non poteva evitare di cercare di sbrogliare quell’intricata matassa. Infine, decise che ciò che le restava da fare era visitare l’ospedale psichiatrico.

Quando giunse all’ingresso del cancello disse di essere una parente di Tobias. L’infermiera le disse di seguirla. Dopo un paio di minuti Betty si trovò seduta nello studio del primario dell’ospedale.

<<Così lei è una parente di Tobias, giusto?>>

La domanda la prese alla sprovvista, ma la curiosità di conoscere la verità le impedì di formulare una qualsiasi bugia. Raccontò tutto al dottore che aveva davanti, chiedendogli di essere messa a conoscenza di tutta la storia di Tobias.

<<E’ stata sincera, e lo apprezzo. E poi, da quanto ho capito, è stato Tobias ad “ingaggiarla”! Dunque,>> il dottore si alzò in piedi ed iniziò a camminare avanti e indietro in quel suo ordinato studio dai mobili neri. <<Il padre di Tobias era un Pastore protestante. Sua madre era una fervida credente che aveva strutturato la sua vita e quella del figlio sul piano religioso. L’infanzia di Tobias è stata molto dura: doveva rispettare i più rigidi precetti della religione, osservare periodi di digiuno e subire le pesanti punizioni inflitte dai genitori in caso di disobbedienza. La psiche del bambino ne risentì molto. Quando, a quindici anni, in seguito alla morte del padre, entrò in contatto con un professore di biologia, Tobias iniziò a interessarsi agli studi sull’evoluzionismo, ed, in particolare, alle teorie di Darwin. Tuttavia, egli fece l’errore di parlare di questi argomenti a casa. Sua madre, inorridita, gli proibì di vedere ancora quel professore, quindi gli assicurò che l’indomani avrebbe contattato il Pastore della loro chiesa, affinché anche Tobias seguisse le orme paterne. Il ragazzo, accecato dall’ira, appiccò il fuoco all’intero appartamento che, in breve, fu in preda alle fiamme.

Tobias venne salvato dai vicini. Per sua madre, invece, non ci fu nulla da fare. Lui ha rimosso questi ricordi, e vive, ormai, in un mondo a metà tra il reale ed il sogno. L’unica cosa che ricorda è un nome: Darwin. E’ così che si fa chiamare: Darwin Tobias Moos. Forse in un attimo di lucidità è riuscito ad eludere la sorveglianza delle infermiere e ha chiamato lei. Mi dispiace>>

<<Non fa niente. Mi ha fatto piacere. Posso…Potrei incontrare Tobias?>>

<<Non si ricorderà di lei. E poi è meglio non rivangare questa brutta storia>>

<<Non si preoccupi. Sarò discreta>>

Pochi minuti dopo, Betty fu accompagnata nella stanza di Tobias. L’uomo, dai capelli bianchi e gli occhi grandi e verdi, era intento a guardare un vecchio film alla tv. Quando lei entrò non diede segno di essersi accorto della sua presenza.

Betty gli sedette accanto, quindi prese il foglio che aveva in borsa e glielo porse. Era la fotografia che aveva fatto il pomeriggio al palazzo dove Tobias era cresciuto.

Il vecchio prese la fotografia e la guardò attentamente. Poi sorrise e i suoi occhi verdi si illuminarono.

<<Sa che io abitavo qui, da piccolo? Erano giorni felici. Come sono contento, non riuscivo più a ricordare questa casa!>>

Betty gli strinse forte la mano, quindi si alzò e uscì dalla stanza. Dopo aver percorso tutto il corridoio in silenzio, si lasciò alle spalle l’ospedale psichiatrico di Old Mill Street e sorrise.
“Stardust & Co., ritroviamo l’introvabile” pensò, “da oggi ci occupiamo anche di ricordi!”.


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