Io ho scelto di stare qui, in Italia e in Friuli, e non sto ancora cambiando idea. E’ una scelta che lascia perplessi – l’obiezione più comune e banale è: non ti senti stretta? Una che ha girato il mondo, come te… la risposta a questa domanda l’ho già data (no, e se mi sento stretta sto poco ad allargare).
La seconda obiezione me la faccio ogni tanto io stessa: è giusto, date le diseguaglianze globali, le emergenze umanitarie, le tragedie di massa che si consumano nel mondo, starsene belli comodi in una delle regioni più ricche del pianeta, senza fame e senza guerre? Non avrei forse il dovere di uscire da qui e contribuire alla risoluzione dei grandi problemi dell’umanità? Stare al computer a scrivere mentre centinaia di persone ancora annegano nel nostro mare, per raggiungerci, non è mostruoso? Non sono forse come il ricco Epulone che mangia mentre Lazzaro lecca le briciole sotto al suo tavolo?
Io ho studiato cooperazione allo sviluppo – quando lo dico, la gente mi guarda perplessa: e cos’è? Non è una disciplina, è un tema, una domanda, e al momento forse la più importante che ci sia, almeno se si guarda oltre il proprio orticello. Un tema che ne attraversa tanti altri – la giustizia, la solidarietà, la libertà, il rapporto tra culture, tra generi, tra esseri umani e ambiente, il peso della storia e i doveri che abbiamo gli uni verso gli altri…
Con la mia laurea adesso dovrei essere a lavorare in Africa, in Asia, o in qualche centro di potere internazionale. Una cosa però di cui mi sono resa conto, studiando, è che, dato che viviamo in un mondo di risorse limitate, cercare di eliminare la povertà non basta: bisogna anche trovare il modo di ridurre i consumi dei ricchi. Restare in uno dei luoghi di maggior benessere al mondo, cercare di far capire questo e di convincere la gente a cambiare stile di vita, mi sembra uno degli obbiettivi migliori che ci possano essere. Se faremo le cose bene libereremo risorse per gli altri, sperimenteremo stili di vita nuovi, daremo il buon esempio a chi ci vorrà venire a trovare, accoglieremo chi è in difficoltà. Senza uscire e andare a dire agli altri cosa devono fare.
C’è un altro motivo poi, più profondo. Il Friuli ha problemi, ma non grossi, quasi mai tragici. C’è pace, c’è da mangiare per tutti, bene o male un lavoro si trova, l’aspettativa di vita è alta, ci sono divertimenti e ancora abbastanza spazi naturali in cui cercare rifugio, anche se sempre più rovinati. Ci sono cause per cui combattere, soprattutto quelle ambientali, ultimamente, ma nessuna vera catastrofe all’orizzonte, o per lo meno nessuna che possiamo vedere.
Eppure non per questo la gente è felice. Tanti stanno bene, tanti si sentono frustrati, incompresi, annoiati; i giovani vogliono andare via, gli adulti sono esauriti, i vecchi isterici. Perché? E’ per questo che la gente è emigrata ed è morta, per costruire un mondo perfetto che non va bene lo stesso?
Cosa rimane, della nostra vita, quando le difficoltà materiali non ci sono più, quando non viviamo il dramma della guerra, quando non c’è un nemico, non c’è un pericolo, su cui concentrare la nostra attenzione? Diventiamo egoisti, al punto che l’idea di far venire qui pochi immigrati cui dare una mano ci sembra chissà quale rinuncia? Diventiamo apatici, perché la posta in gioco è noiosamente bassa? Diventiamo ossessionati dalle vite private, dalla famiglia come unico valore rimasto, dal bisogno di innamorarci o di evadere, perché non c’è nient’altro a emozionarci? Sublimiamo con lo sport? Ci appassioniamo ai pettegolezzi e al trash? Ci diamo all’arte? Ci inventiamo cause inesistenti per cui lottare? Finiamo a guardare il mare o le vette, cercando un’estasi, un contatto con il divino? Oppure alla fin fine il conflitto e la tragedia sono necessari per una vita vera? E’ nell’assenza di ogni costrizione materiale che si può osservare al meglio la condizione umana, o nella lotta per la sopravvivenza?
Queste mi sembrano domande molto interessanti. E’ per questo che sto qui e scrivo libri, nel mio piccolo.
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