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Stasera scrivo

Da Adc

Stasera scrivo. Stasera bevo. Prima bevo e poi scrivo. Ok, ci siamo. Mi presento. Sono Giannino, professione fermacarte. Come, cosa fa un fermacarte? Che fate, mi prendete in giro? Divertente, davvero molto divertente. Lo dice la parola stessa. Un fermacarte, ferma le carte ed io, in quanto fermacarte mi occupo prevalentemente di questo, di fermare le carte. Come quali? Ma tutte, ogni genere di carte: ruvide, lisce, bianche, colorate, a righe, a quadretti, imbustate, stropicciate, perfino strappate. Sono un professionista io. Ce ne fossero come me, sono attaccato al lavoro come una mosca ad una montagna di merda, mica da ridere. Pensate che ho iniziato quest’avventura nel mondo della chiamiamola cartoleria, quasi per gioco, così, tanto per provare. Avevo perso l’ennesimo lavoro, mi pare come appendiabiti e un mio amico mi aveva parlato di questi uffici in centro che assumevano nuovi segnacarte per ampliare il proprio organico. Vaffanculo, mi dissi, io ci provo. Tanto cos’ho da perdere? Da perdere a quel tempo avevo davvero poco, il mio cane era morto, la mia donna era scappata con una tartaruga e i soldi mi bastavano giusto per pagare le bevute. O meglio, le bevute sopravvivevano, nonostante i soldi. Non so se mi sono spiegato. Comunque, decisi di presentarmi presso la sede centrale, era lì che si tenevano i colloqui.

Quando arrivai trovai almeno centotrenta persone in attesa di sostenere il colloquio. Erano le sette del mattino e gli uffici avrebbero aperto solo alle nove. Probabilmente quella gente aveva dormito lì. Mi sedetti su una panchina davanti la porta d’ingresso, accanto ad un uomo alto alto, sui cinquant’anni. Mi accorsi quasi subito che in lui c’era qualcosa che non andava, dico sul serio. Si guardava intorno, prima a destra e poi a sinistra, a intervalli regolari e faceva dei movimenti scomposti con le mani, quasi a voler scacciare uno sciame di api immaginarie. Tutt’a un tratto mi sentii migliore, più normale, se mai può esistere una normalità. Arrivarono le nove, tra sigarette e qualche parola scambiata così, quasi per sbaglio.

Il mio turno arrivò più o meno alle tre del pomeriggio, dopo la pausa pranzo dei dirigenti, i pezzi grossi che avrebbero avuto l’ultima parola su tutta questa storia. Mi fecero accomodare in una grande stanza dalle pareti bianche, altissime. C’era solo una sedia davanti ad un grosso tavolo e se dico grosso so di cosa parlo. Dietro il grosso tavolo c’erano cinque poltrone sulle quali erano sedute cinque persone che avevano l’aria di non aver mai lavorato in vita loro. Un lavoro vero, intendo. Erano tre uomini e due donne. Gli uomini avevano tutti e tre una barbetta di due o tre giorni, tanto per darsi l’aria selvaggia che fa tanto chic e erano avvolti da vestiti scuri, di buona fattura. Le donne erano entrambe avanti con gli anni, sui cinquantacinque, bionde ossigenate, con indosso tailleur di gran classe, bei soldi.

L’uomo che stava seduto al centro, che aveva l’aria di essere il più importante, parlò per primo.

“Cosa le fa pensare di essere portato per questo lavoro?” mi disse.

Non risposi. Mi limitai a guardarmi intorno, senza spiccicare una parola.

“Dico a lei,” continuò “ cosa le fa pensare di poter essere il fermacarte che stiamo cercando?”

Volsi lo sguardo alle imponenti mura candide che mi circondavano, impietose.

“Sono un tipo che sa star al suo posto” biascicai, “so star fermo e credo di saper tener al suo posto qualsiasi cosa.”

Una delle due donne appuntò qualcosa su un block notes. Sembravano due gemelle, quelle due. Uscite dallo stesso fottuto utero. Sicuramente usavano la stessa marca di tintura per capelli.

“E crede di poter reggere i ritmi della nostra azienda?” disse un altro, il più anziano tra i cinque, capelli corti grigiastri e grande pancia da bevitore di birra, a stento contenuta dalla giacca che avvolgeva la camicia rosa, “Siamo un’azienda internazionale, sempre in movimento…”

“Il mio compito è di fermare il moto, tutto ciò che si muove lo fermo, è una cosa istintiva…” ribattei.

La donna continuò ad appuntare qualcosa.

L’altra donna, la gemella di colei che si divertiva a prendere appunti, intervenne alla conversazione.

“Ha mai mostrato segni di squilibrio psicologico?” chiese.

Notai che, all’angolo della parete, all’angolo alla mia destra, c’era una macchiolina marrone, che mandava a puttane tutto quel bel bianco. La fissai.

“L’equilibrio è tutto quel che ho” risposi, fissando la macchia color merda fresca.

L’altra appuntava, avidamente, senza alzare lo sguardo da quello stupido block notes.

“Perfetto, può andare” disse l’uomo che aveva parlato per primo.

Salutai tutti e uscii piano dalla stanza.

Non appena fui in strada mi sentii nauseato, quella gente mi aveva disturbato in profondità. Sentivo il pancreas ribellarsi. Accesi una sigaretta e indicai la strada a uno che aveva tanto l’aria di essere un senzatetto, era lì per il colloquio anche lui.

Il giorno dopo ero seduto a tavola, stavo per iniziare a mangiare un piatto di spaghetti, quando squillò il telefono.

“Pronto?”

“Uffici Federal S.p.a.” una voce femminile.

“Sì?”

“Ha passato le selezioni. E’ assunto. E’ il nuovo fermacarte della società.”

“Oh..."

“Congratulazioni. Inizia domani. Si presenti alle nove presso la sede centrale.”

Dall’altra parte attaccarono e io mi buttai sugli spaghetti.

 


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