Gustav Horn, presidente dell’Institut für Makroökonomie und Konjunkturforschung della Hans-Böckler-Stiftung (vicino ai sindacati), sulla progressista Die Zeit propone una riflessione sul meccanismo profondamente sbagliato alla base della moneta unica: la concorrenza fra stati [da Voci dalla Germania].
di Gustav Horn
Gli stati in Europa dovranno essere come le imprese: più economici, in continuo miglioramento e sempre più competitivi. Questo pensiero economico sta distruggendo l’Europa.
La crisi della zona Euro sembra non avere fine. Perché la zona Euro nonostante gli enormi sforzi di tutti i paesi membri non si è ancora stabilizzata?
La risposta è semplice. Perché le soluzioni proposte sono ampiamente inefficaci. Solo l’annuncio di un acquisto illimitato di titoli di stato da parte della BCE è riuscito a calmare un po’ la situazione. Tutto il resto, almeno nel breve periodo, non ci aiuta molto, o addirittura può risultare dannoso. E nel frattempo il consenso politico per l’Euro viene meno. Questo processo affonderà la moneta unica – se tali sviluppi non saranno fermati.
L’errore di fondo, commesso in particolar modo dalla Germania, è stato una concezione dell’unione monetaria completamente sbagliata. Il governo federale ha interpretato l’unione monetaria – lo stesso hanno fatto i governi che l’hanno preceduto – come una comunità di stati fondata sulla concorrenza. In questa competizione i singoli paesi devono mostrarsi capaci di sopravvivere per poter restare legittimi membri dell’unione monetaria. Secondo tale prospettiva ogni paese dovrà adottare un proprio modello di business. Per alcuni – come a Cipro – il modello sarà basato su di una bassa tassazione ed una regolamentazione meno severa – a spese di altri paesi nell’unione monetaria. Un altro modello di business potrebbe essere fondato sulla moderazione salariale e lo smantellamento dei sistemi di sicurezza sociale al fine di raggiungere una maggiore competitività. Ma ciò sta portando ad una forte avversione dei cittadini verso l’Euro. E ciò non aiuta. Al contrario: le misure adottate hanno spinto la zona Euro in una dura recessione in cui né la disoccupazione né i debiti pubblici potranno essere ridotti in tempi prevedibili.
Cosa possiamo imparare da tutto questo? Primo: una politica economica fondata esclusivamente su di un miglioramento delle condizioni sul lato dell’offerta, in una situazione economica con bassa domanda, è destinata a fallire. Senza una domanda sufficiente nessuna impresa potrà imporsi, indipendentemente da quanto economiche saranno le sue produzioni. Questo punto di vista si diffonde gradualmente anche fra i governi della zona Euro. Anche per questo – in maniera più o meno timida – sono stati messi in campo dei programmi per aumentare la domanda.
Il secondo insegnamento è tuttavia ancora più fondamentale. È stato un errore trasferire all’interno di una unione monetaria composta da stati sovrani il modello privato fondato sulla concorrenza. Mentre la concorrenza fra imprese porta a risultati macroeconomici desiderabili, quella fra stati è improduttiva o addirittura dannosa. Il motivo è semplice: quando le aziende si fanno concorrenza, nascono nuovi prodotti e modi di produrre più efficienti – quindi nuove fonti di ricchezza. Se invece gli stati entrano in concorrenza fra di loro, la ricchezza viene distrutta.
Questo è nella natura della concorrenza. Dove questa esiste, deve essere possibile il fallimento. Le imprese fallite scompaiono dal mercato. La concorrenza può acquisirne i clienti e creare nuovi posti di lavoro. Gli stati falliti restano, e soprattutto gli uomini che li abitano. Vivranno con un benessere sensibilmente inferiore. Inoltre, per evitare una destabilizzazione politica avranno bisogno di essere alimentati finanziariamente dagli altri stati.
è chiaro che nella competizione fra paesi non potrà esserci nessun vincitore netto. perché i vincitori molto probabilmente dovranno sostenere finanziariamente i perdenti, fatto che non potrebbe mai accadere nel caso della concorrenza nel settore privato.
Ai sostenitori della concorrenza fra paesi resta un solo argomento. E concerne uno sviluppo economico relativamente dinamico realizzato grazie agli investimenti e all’export di imprese altamente redditizie, attratte grazie ad un basso costo della manodopera, ad una limitata regolamentazione e ad una bassa pressione fiscale. Suona bene all’inizio, ma potrebbe rivelarsi illusorio.
Alla fine ci perdono tutti.
Perché questa concorrenza è caratterizzata da un’elevata pressione: per mantenere un vantaggio competitivo e trattenere le imprese, le aliquote fiscali devono restare necessariamente basse. In questo modo anche la base imponibile degli stati vincitori si erode costantemente. Ciò diventa evidente ad esempio con il degrado delle infrastrutture, per le quali a causa del calo delle entrate non ci sarà più denaro. Le opportunità di impiego e di crescita scompaiono. Anche il presunto vincitore finisce per perdere.
Tutto questo avviene sotto i nostri occhi. Gli stati perdenti come Cipro, la Grecia, il Portogallo, l’Irlanda e gli altri barcollano insieme ai loro fallimentari modelli di business. Sono finiti in un abisso economico e dovranno essere supportati dagli altri stati membri. I vincitori, si crogiolano ancora nel presunto successo. Le loro infrastrutture pubbliche stanno però soffrendo, le casse pubbliche sono vuote. Ogni cliente delle ferrovie pubbliche sa di cosa sto parlando. Così il futuro economico è sprecato sull’altare di un’ideologia che ha elevato la concorrenza fra paesi a leit motiv della politica economica.
La procedura corretta sarebbe stata al contrario una maggiore coordinazione della politica economica europea. È necessario un quadro di politica fiscale comune per tutti gli stati membri ed una minore concorrenza fiscale. La concorrenza dovrebbe essere lasciata alle imprese, altrimenti alla fine avremo solo dei perdenti.
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