Sono seduto davanti a un computer, con le cuffie nelle orecchie, i Jesus Lizard nel cuore, con quelle note che sembrano portare avanti, in un lungo deserto, il monumentale simbolo d’un sole nero che ci inghiotte. Tutti. Datemi pure del pessimista: la dolce falce ci troncherà tutti, noi e le belle poesie, la terra negra che è stanca, non sopporta più i nostri passi.
Sono in una stanza di qualche metro per qualche metro in una casa che condivido con uomini e non persone (da Wikipedia: “Il termine “persona” deriva dal latino persōna persōnam derivato probabilmente dall’etrusco φersu, indi φersuna, che nelle iscrizioni tombali riportate in questa lingua indica “personaggi mascherati”. Tale termine etrusco sarebbe ritenuto un adattamento del greco πρόσωπον (prósōpon) dove indica il volto dell’individuo, ma anche la maschera dell’attore e il personaggio da esso rappresentato”), o meglio non persone-rettili che come se avessero il corpo tappezzato di squame si riversano oltre i propri rifugi per accalorarsi nel primo sole di primavera, con l’unica differenza che i rettili non danno nessuna importanza a questo trascinarsi per stendersi al sole e disperdersi quando il buio avanza e noi ne facciamo ricami, opere, cultura e tutto ciò che serva a fissarsi ben bene i chiodi della bara ed a dire “Io sono stato questo e spero di essere stato abbastanza bello” come se qualcuno leggesse mai le iscrizioni tombali, gli epitaffi finali, quelle due righe a cui consacriamo quasi secoli di miliardi di parole e che spesso sono semplicemente sepolte di fiori, altrimenti morse da erbacce e ammufiscono all’ombra di altre tombe, diventando carogne di carogne.
Non ho una direzione ma ho molti progetti. Nessuno è mio davvero, ma ho letto molti libri che mi sono serviti a credere di poter essere ora questo, ora quello. Alcuni personaggi sono ancora credibili e sto ancora inseguendo. Poi, romanzi a parte, so che dovrò cercare un lavoro e guadagarmi dei soldi, che poi dovrò trovare un modo per spenderli e poi per dirmi che ne devo guadagnere di più e spenderne di più e poi che non mi bastano più, che il sistema è ingiusto attraverso i megafoni che il sistema stesso mi predispone. So anche che non farò mai tutto questo, perchè mi basta guardare la differenza di stati d’animo alle lauree dei miei amici tra gli occhi felici ma spaventati oltre l’adesso di questi e la vuota vittoria nel sogno di rivalsa sociale dei genitori, che non capiscono che esser avieri è buona cosa nella luce, meno nel buio. Spero che questo strappo futuro con la direzione del piccolo mondo (non antico) che mi circonda avvenga in modo sereno, perchè so di esser capace anche di strappi brutali e sono stanco di ferire, io che forse non ho mai ferito davvero escluso me stesso, e di conseguenza i molti che mi abitano.
Non ho direzione ma per sentire direzione un uomo dovrebbe sentire anche un luogo verso cui dirigersi, quantomeno un luogo da cui partire, una qualsiasi origine che non corrisponda a un moto intestino chiamato “fuga da ciò che non sei”, ossia il posto in cui, almeno per il sottoscritto, sono nato e sfuggito ringhiando all’abisso della banalità, graffiando il sudario d’una famiglia che aveva consacrato il figlio ad una idea di mondo che è finita, che ha l’odore d’una disordinata decomposizione ma che continuiamo a bonficare istante per istante come se il problema della palude fosse una pozza invasa da troppa acqua, e non una bufera di cui non si vede la fine. Ma anch’io sono fatto in fondo di squame e cerco il mio calore, anch’io sono un uomo rettile che cerca di strapparsi le squame, appassirsi la coda, fregarsi della filosofia e gettarsi sull’istinto di sopravvivenza.
Io sono la colpa che denuncio negli altri, il sarcofago che chiudo e sbatto in un’oceano di sguardi nafraghi, sepolti sotto troppo sole: anche le squame hanno una loro consistenza ed in questo brano la metafora con i rettili si è decisamente esaurita, così come la musica, così come il brano stesso e la vostra pazienza, per questa brutta selva personale di cui faccio dono non richiesto, abusando di uno spazio d’accoglienza. Neppure il sole nero è arrivato in porto, quello che sentivo nella musica iniziale. Era tutta una musicante illusione, una stupida visione di cui qualcuno mi chiederà conto.
Poi mi tocco il corpo, sento una carne giovane e provo un senso di repulsione per l’entsiasmo che talvolta a poco a poco mi contagia di sperare, di costruire, di progettare, quando neppure conosco il nome del luogo ove desidero approdare , quando ormai tutti hanno capito che il vagare senza senso è “merda d’artista”, un’arte fine a se stessa in un mondo che potrebbe essere solo una mera illusione. Sono contento di distruggermi con testamenti che sono pistole infilate nelle bocca e pronte ad esplodere un cranio come in un film noir, non conosco altro modo per crearmi poco a poco, giustificarmi nel domani. Vi offro questo testo come una preghiera becera, destinata al fango.
Colo parole come da una ferita stupida. Se mi fisso allo specchio cerco un luogo e capisco che esserne orfano mi rende manchevole, come di un arto. La paesologia che qui impera e si dice sia di questo e di quello, in quel modo e non in quell’altro ancora, che a volta mi sembra puzzi già di muffa nella teoria sembra l’unica carne che mi sorregge, una stupida ambizione di cui sono irrimediabilmente manchevole, l’invidia di un luogo a cui appartenere, che certamente non appartiene neppure a chi lo abita. E forse è questa la consapevolezza dell’appartenenza: un’inclusione inspiegabile in un destino comune agli alberi, alle erbacce, alle tombe comuni dei trapassati vicini e lontani, la paura d’un domani che sembra portare solo altra morte e altro deserto e che non chiede alcun senso, e come la bestia sta nella stalla, cresce mangia figlia allatta e crepa, e nessuno, NESSUNO (mettiamocelo bene in testa) si ricorderà di lei e lei non si cura dell’importanza del ricordo – “La rosa è senza perché; fiorisce poiché fiorisce, di sé non gliene cale, non chiede d’esser vista”, scriveva Angelus Silesius nel suo “Il pellegrino cherubico” del XXII secolo.
Semplicemente, la rosa come la bestia nella stalla, passa, nel “tutto scorre” troppo poetico oggi per poterlo abitare. E io qui so di aver trovato una domanda grande quanto una Sfinge non ancora scoperta, che mi spinge a non dubitare più del dono delle nubi, ma che mi spinge a chiedervi che senso ha tutto questo tra uno psichismo personale, una depressione maniacale, una crisi autoriale, in mezzo al sincero vuoto che ci accade.
Ma ora cala il sole, non nero, e scende la sera, questa si nera, od almeno oscura, ed almeno in questo, oggi, trovo estrema consonanza, prossimità d’approdo anche senza luogo, ma con uno “stare in non luogo”, per insistere ancora sulle parole di altri, sulle domande di altri, nell’ansia di risposta personale che mi brucia senza fuoco.
Resta questa mia cenere quotidiana, a voi soffiarla a terra o calpestarla in volo.
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