Ci sono band che sono fiche più come concetto che in concreto ma, nondimeno, sono fiche lo stesso. Gli Steel Panther sono un ottimo esempio. Se prendi un loro album, alla fine, le canzoni che veramente canterai sotto la doccia sono tre o quattro. A farteli riuscire irresistibili è tutto il contorno di testi allegramente maschilisti, titoli come It Won’t Suck Itself e Eatin’ Ain’t Cheatin (un dibattito sempre aperto e attuale), video con Ron Jeremy che sniffa cocaina dalle tette di una tipa e recupero cazzarone dell’armamentario estetico e iconografico della scena hair metal losangelina, della quale gli Steel Panther sono una parodia più che una riproposizione in chiave moderna. Perché i vari Poison e Mötley Crüe si prendevano molto più sul serio di quanto saremmo disposti a credere guardando, a trent’anni di distanza, una loro vecchia foto in mise da battaglia. Da questo punto di vista, Michael Starr e soci sono un’operazione accostabile più ai Gwar del compianto Oderus Urungus che ai loro teorici mentori in eyeliner e lustrini. Ci si approccia a loro con una certa indulgenza perché una parodia deve essere un po’ sgangherata, al netto della confezione scintillante e dell’iperproduzione. Se poi qualcosa finisce per funzionare davvero, tanto di guadagnato.
Le prime due tracce, Pussywhipped e Party Like Tomorrow It’s the End of the World, graffiano ma non troppo. Fai su e giù con la testa, abbozzi un sorrisetto, però non si decolla al cento per cento. Poi arriva Glory Hole (se siete assidui frequentatori di dark room o avete visto Irina Palm, il film con Marianne Faithfull di qualche anno fa, saprete cosa significhi). Si parte col rumore di una cerniera che si apre. La prima strofa fa:
There’s a place in France where the naked ladies dance.
There’s a hole in the wall where you put your cock and balls.
But you never really know who’s sucking on the other side.
Is it a boy or a girl, or a lady-man hermaphrodite?
E all’improvviso All You Can Eat finisce per meritarsi di diritto un posto nella playlist provvisoria.Un pezzo perfetto, con un ritornello irresistibile che non vi abbandonerà più. Vi scoprirete a canticchiare nei momenti più inopportuni:
HONEY, I DON’T WANNA KNOOOW WHO’S SUCKING MY DICK TODAAAY
Lo stesso meccanismo di certi film comici. Magari non sono scritti sempre benissimo e il ritmo è incostante ma, se hanno gli attori giusti e ogni tot ti piazzano la gag devastante che ti fa rotolare in terra per cinque minuti, risultano adorabili lo stesso. Anche perché negli Steel Panther le liriche contano quanto la musica, un po’ come avviene per il filone “demenziale” tout-court, dei vari Psychostick e Bloodhound Gang, che pure sono tutto un altro campionato, ben più tosto. D’altro canto, però, così come il titolo non basta a salvare dalla noia un film come Jesus Christ Vampire Hunter, il brano successivo resta moscetto e poco ispirato nonostante si chiami Bukkake Tears e il contrasto tra gli accenti fintamente enfatici e l’argomento garantisca un sogghigno. Il disco, nel complesso più quadrato e aggressivo di Balls Out, il che è un pregio, prosegue tra alti (Gangbang at the Old Folks Home potrebbe tranquillamente essere stata scritta dal Bon Jovi dei tempi d’oro) e bassi (pochi) ma a fine ascolto ci si sente come quando ci si risveglia dopo un party selvaggio: anche se non si ricorda bene tutto, la sensazione è comunque di essersi divertiti un mondo.
E poi, dai, come si fa a non amare una band che caccia video del genere: