Torno sul lavoro di Stefano Lorefice "Frontenotte" (Transeuropa, 2011) con l'occasione di vederlo da un'altra prospettiva, partendo sempre da quello che scrissi a suo tempo (v. QUI), almeno per quanto riguarda i testi. E partendo anche da una constatazione, o forse solo una percezione, di un diffuso sentimento, in molti autori, di una certa qual limitatezza della scrittura poetica, di una specie di esaurimento delle sue capacità iconiche o narrative o evocative, sentimento che a volte porta a risultati detti, didascalici ("diciamolo meglio"), a volte a percosse e torsioni del linguaggio insignificanti, nel senso etimologico del termine. E' indubbio che molti abbiano sentito la necessità di sperimentare altre strade o altri mezzi, senza tuttavia rinunciare a definire e sentire il proprio lavoro come "poetico", talvolta recuperando una oralità o vocalità della poesia che si era persa nel tempo (magari affermando, come nel caso di Lello Voce, che è l'unica maniera "vera" di poetare), altre volte tentando delle sinergie con altri linguaggi creativi, sentiti come più moderni, o escludendo del tutto la parola dal "testo" poetico, dandola in un certo senso come sottintesa. Bisogna vedere se queste interazioni sono stampelle, fumo negli occhi, mascheramento di difetti, ipostasi oppure valori aggiunti. Ma certo la ricerca in quella direzione ha diritto di cittadinanza (e spesso consegue ottimi risultati), e la fotografia resta uno dei mezzi migliori in tal senso. Del resto sono convinto che se "ogni fotografia è un certificato di presenza" (R. Barthes, in "La camera chiara"), anche la poesia lo è. Presenza, va da sé, dell'autore dello "scatto". Nell'osservare le fotografie qui pubblicate, opera di un alter ego (o eteronimo) di Stefano, e nel leggere i suoi testi, si ha il vantaggio che in entrambi è certificata la stessa presenza, e aggiungerei la stessa poetica. Che è quella, come scrivevo a suo tempo, della osservazione sociale disincantata e insieme dolente, della constatazione della progressiva riduzione dell'uomo a nullità identitaria isolata, della stramatura di un tessuto per lo più urbano in cui l'indifferenza dei più è temperata per quanto possibile dall'occhio (e dalla voce) cosciente dell'autore, che in qualche modo la interpreta. Le immagini, in questa occasione, danno forza e sostanza ai testi, aggiungono una ulteriore significazione, una specie di sinestesia. Pur non essendo stati pensati insieme, i testi e le foto, a ben vedere, hanno lo stesso bianco e nero, le stesse sfumature di grigio, lo stesso contrasto. La grana, in entrambi, è quella che il compianto Seamus Heaney chiamava la "grana delle cose", la venatura, la fibra stessa del mondo, così come s'è ridotto. Il limite tra il nero e le alte luci è confine fortemente simbolico, difficilmente attraversabile. Per la verità, le foto sono più disabitate, per così dire, di quanto non lo siano le poesie. O meglio sono abitate da ombre, che proiettate sui muri hanno la consistenza delle ombre di una Hiroshima surmoderna. Ombre che a loro volta abitano la notte e l'asfalto, luoghi deputati di un aggirarsi di individui indistinguibili, in cui perfino i monumenti hanno un incombere sociale, segnano la differenza di ceto tra chi li costruì e chi li percorre oggi, e le stazioni non sono più luoghi in cui si arriva o si parte ma in cui piuttosto forse si aspetta qualcosa in maniera del tutto irrelata. Dunque qui c'è un'altra certificazione di presenza, la presenza dell'indeterminato, dell'irrappresentabile anche politicamente, della massa anonima senza peso per "i lupi / dell’unica democrazia / che conosciamo". Qui lo spectrum barthesiano, cioè il soggetto che la fotografia fissa per sempre, è davvero l'ombra, lo spettro degli "uomini nulli" di cui parla Lorefice nei suoi versi. (g.c.)
dalla sezione "Confine estremo del rumore"
***
qui c’è esposizione di corpi
ordine preciso da predatori
un’unica grande generazione
che non ha le domande e sa poco
dell’idraulica che ci va
a far capitare un temporale
***
Se ne sta lì inebetita/raccolta, donna sommaria svuotata/avvolta
nel vestito rimasto. L’hanno trovata così, sotto il cavalcavia
della tangenziale, e qualcuno subito dice ch’è immorale una
violenza carnale con questa umidità. La pioggia le scende
precisa sulla faccia. Aerea nel suo respirare la donna non
risponde.
(Periferia nord di Milano – Novembre 200 7)
***
era in fila con gli altri
della specie, quella rumorosa
dei vivi in città, nello sforzo finale
di spegnere la sigaretta,
prima del piatto caldo dovuto
per misericordia a tutti,
s’è capito che nel sistema
s’arrangiava pure lui:
c’erano una tovaglia, piatti
di plastica, profumo di pane
ed una minima coda
laterale; roba di sale,
olio e spezie,
tutti valori contabili della fame
***
prima o poi ci sarà
da rendere conto del disastro
e il carico delle stirpi
confuso senza essere
mai nominato
avanzerà frontale contro
tutto quello che siamo, verrà
preciso a chiederci indietro
l’ultima zona di libertà,
a quel punto andremo sotto
in apnea col ventre
secco asciutto, privo
di quell’elasticità necessaria
a sopportare le acque
senza fiato
arriveranno inquadrati i lupi
dell’unica democrazia
che conosciamo
***
arriva il momento delle ronde
notturne, della differenza umorale
del buono dal buono
e di tutte quelle facce peste
e schifose da uomini nulli,
confraternite da poco, nascoste
dietro alle voci-insieme, che
se venisse la vera pioggia
se li porterebbe via tutti
questi contabili della miseria
***
lungo le vie dei tram sgangherati
ne vengono alcuni con i biglietti
e le bocche storte
per fame,
poco della pioggia che scende sopportano,
ma sono insieme, stretti sull’asfalto
che non ha dio da seguire
e comunque rinsalda, asciuga le pozze;
vengono stanchi e tengono alte
le mani pulite per gusto e moda
d’esistere, bisbigliando fra loro
che anche questo viale
prima o poi finirà,
anche questa città, è sicuro,
prima o poi finirà