Stefano Vernole, redattore di “Eurasia”, ha avuto recentemente occasione di visitare la Siria assieme ad una rappresentanza della comunità siriana in Italia. Si è trattenuto alcuni giorni a Damasco, dove ha potuto incontrare personalità del Governo ma anche parlare liberamente coi comuni cittadini. Quello che segue è il suo resoconto di quest’esperienza.
Chi avesse occasione di recarsi in Siria dovrebbe, come prima atto, liberare il proprio cervello dalla propaganda massmediatica trasmessa da Al Jazeera e affini.
Seguendo il classico stile hollywoodiano, la tv simbolo della “democrazia” mediorientale ma pagata da un autocrate, l’Emiro del Qatar, ci ha raccontato per mesi di imponenti manifestazioni anti-regime represse nel sangue dal Presidente Bashar al-Assad, descritto da tv e giornali allineati come uno spietato dittatore.
Mi dispiace perciò deludere i vari appassionati della stampa “alternativa” stile “Internazionale” o quanti hanno ceduto al fascino delle parole d’ordine lanciate dalla Casa Bianca su “primavere arabe” e “nuova caduta del Muro di Berlino”, ma per quanto ho potuto vedere durante il mio soggiorno a Damasco la Siria e la sua Guida godono di ottima salute.
Innanzitutto non c’è più traccia delle vere o presunte manifestazioni di massa anti-governative nella capitale siriana, dove regna la pace sociale e la vita scorre con la massima tranquillità, dal centro alla periferia.
Blandi i controlli in aeroporto, possibilità di girare senza limiti e di scattare foto a volontà.
Raramente nel visitare città in giro per il mondo ho conosciuto persone così serene, luoghi dove non compare la minima traccia di criminalità e, peraltro, senza alcuno spiegamento di forze dell’ordine.
I primi che si sarebbero dovuti accorgere della situazione reale sono proprio i delegati della Lega Araba, che chiedono il “ritiro dei blindati dalle strade” quando loro, per primi, sono usciti dal Palazzo Presidenziale dopo i colloqui ridendo e senza alcun tipo di scorta…
Lo Stato, infatti, mantiene i propri militari nelle caserme, e nelle strade di Damasco si notano giusto i Vigili Urbani intenti a dirigere il traffico.
Dopo l’inizio alcuni mesi fa di modeste dimostrazioni antigovernative, infatti, è stato proprio il popolo siriano quello che è sceso in piazza a fianco del suo Presidente, come testimoniano le manifestazioni imponenti, le foto e i manifesti appesi in tutti i negozi e in tutte le vie principali della capitale, oppure lo striscione che campeggia su uno dei principali cavalcavia cittadini e che recita “Thank You Russia” (con riferimento al veto di Mosca sulle sanzioni ONU).
Se forse qualche esponente dell’establishment, immaginandosi uno scenario libico, ha inizialmente esitato a schierarsi, sono stati proprio i partiti minori, quello comunista e quello socialista-nazionale ad organizzare la mobilitazione pro-governativa, consapevoli che l’alternativa ad Assad può essere solo l’occupazione del paese da parte della NATO.
Perché la maggior parte del popolo siriano rimanga compatta intorno al suo Presidente è presto detto: la Siria è un coacervo di etnie e culture tutte rispettate e ben rappresentate dalle moschee, dalle chiese cattoliche e da quelle cristiano-ortodosse, che convivono pacificamente l’una di fianco all’altra.
Un messaggio opposto a quello dello “scontro di civiltà” voluto dal Pentagono, che con la logica del “divide et impera” cerca di mantenere il controllo sul vicino Iraq.
Le parole che abbiamo ascoltato nella Grande Moschea degli Omayyadi dal Gran Muftì della Siria, Ahmed Badr Al-Din Hassun, non lasciano dubbi a proposito: “Una qualsiasi vita umana è più importante dei simboli religiosi. Una moschea si può ricostruire, una vita non si può restituire”.
Questo messaggio non è però assolutamente stato recepito da quanti lavorano alla destabilizzazione della nazione siriana e cioè quei gruppi salafiti che da tempo scatenano una durissima guerriglia nelle zone di frontiera con il Libano, la Giordania, l’Iraq e la Turchia.
Dopo la presunta uccisione di Bin Laden, infatti, gli Stati Uniti non si preoccupano nemmeno più di mascherare la loro alleanza con Al Qaeda, l’erede di quel mercenariato islamista al servizio di Washington fin dal 1979 in Afghanistan.
Abbiamo perciò potuto visitare nell’ospedale militare di Damasco i frutti delle “manifestazioni pacifiche” di cui ci parlano i mass media nostrani ad Hama e altrove: tantissimi i soldati siriani feriti nelle zone di confine, che hanno perso occhi e braccia ma non la volontà di continuare a servire la propria patria.
Esattamente come in Libia, finanziati e protetti dalle centrali occulte saudite, israeliane e statunitensi, questi gruppi islamisti agiscono senza la minima pietà contro tutti coloro che non accettano di passare dalla loro parte, e hanno come unico scopo quello di riportare il paese all’età della pietra.
Le testimonianze di un conflitto che con l’appello ad una “maggiore democrazia” non c’entra davvero nulla sono state unanimi: in Siria si parla di un complotto ordito dall’esterno per consolidare la strategia geopolitica atlantista, quella del caos in Medioriente, unico antidoto all’inevitabile crescita dell’influenza di Russia e Cina nella regione.
La crisi irreversibile del capitalismo finanziario occidentale, come ci ha riferito il Vice Ministro agli Esteri del Governo di Damasco Abdel-Fattah Ammoura, non può che accelerare questo tentativo disperato di rinviare la fine dell’egemonia della City e di Wall Street.
D’altronde la sfilza di riforme concessa da Assad è impressionante ma, come ribadito dalla sig.ra Clinton, se la Siria vuole vedere la fine delle rivolte deve “riconoscere Israele, togliere il sostegno ad Hamas ed Hezbollah e magari mettere 3 o 4 ministri dei Fratelli Musulmani nel proprio esecutivo” (richiesta quest’ultima particolarmente gradita ad Ankara).
Sono stati così mesi e mesi di guerra occulta, costata molto cara all’esercito siriano (si parla di 1.600 morti), che è riuscito però alla fine ad averne la meglio, con l’unica eccezione ancora della città di Homs e di qualche piccola cittadina, dove gli estremisti salafiti si mescolano ai civili.
La tenuta economica e sociale del paese, nonostante alcuni effetti visibili delle sanzioni internazionali, permette ad Assad di trattare ora da una posizione di forza e di accettare le richieste della Lega Araba.
La palla passa ora nelle mani della Casa Bianca, che non fa mistero dei suoi piani di attacco non solo contro Damasco ma pure contro Teheran, come rivelano in questi giorni i giornali britannici.
La Siria, comunque, attende fiduciosa quanto decideranno al Pentagono e al Quartier Generale dell’Alleanza Atlantica a Bruxelles, sicura della capacità di resistenza del proprio esercito e della mobilitazione popolare che ne deriverebbe: in caso di guerra, dicono, tutto il Vicino Oriente verrebbe sconvolto e il primo a pagarne il prezzo sarebbe proprio Israele, il taciturno alleato regionale degli Stati Uniti, che dopo la dura lezione ricevuta in Libano nel 2006 rischierebbe una vera e propria débacle.
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