Il Macintosh doveva parlare, era fondamentale che il Mac parlasse e dicesse Ciao. Senza questa magia nulla avrebbe avuto senso, le sue prestazioni non sarebbero risultate vincenti e non si sarebbe distinto da un normale Pc della IBM. Differenziazione, stile, arte. E’ questo il messaggio del primo atto della pellicola teatrale di Danni Boyle.
Tutto fa perno intorno all’ossessione dei dettagli che possono stupire il pubblico, perché per vendere qualcosa prima bisogna attirare l’attenzione delle masse. Il terzo film della storia dedicato alla figura di Steve Jobs (dopo I Pirati della Silicon Valley e Jobs) guarda più al mito che all’uomo, descrivendoci un individuo bello e vincente, che vuole avere sempre ragione e mantenere il controllo su ogni cosa. Una mania che cerca insistentemente di trasferire ai suoi prodotti. Controllo end-to-end lo chiama, ovvero macchine non espandibili ne manomissibili dall’utente finale. Computer chiusi in una bara di plastica e sigillati con viti che richiedono speciali strumenti per l’assemblaggio.
Un’idea tutt’altro che vincente all’interno di un mercato in cui il trend dominante era la personalizzazione del proprio computer secondo le proprie esigenze; un fattore che fece la differenza tra il successo prorompente di Microsoft e la disfatta di Apple agli inizi degli anni ‘90. Con un salto avanti nel tempo narrato in pochi secondi dalla voiceover dei giornalisti contemporanei, ci ritroviamo al cospetto di un Jobs in piena reinvenzione di se grazie alla Next e il BlackCube, un computer stiloso dal costo esagerato e ammantato di perfezione, racchiuso in un guscio cubico di alluminio perfetto al millimetro che nessuno volle acquistare nemmeno sotto tortura. Altro fallimento, altra mazzata.
Poi venne la rivoluzione tanto attesa, venne l’iMac, dove i sta per internet, ma anche per insuperabile viste le prospettive di vendita di quel giocattolino colorato che reinventò il concetto di design applicato alla tecnologia. In questo siparietto di due ore filate nel quale non succede praticamente nulla di eclatante, ci viene raccontato un Jobs inedito, controllato, figo e senz’anima. Un Jobs che passa da un palcoscenico all’altro per presentare le sue non-creazioni, perché lui non sa scrivere una linea di codice ne costruire un hardware come il geniale Steve Wozniack, ma si vanta di saper dirigere l’orchestra formata dai tecnici, cioè quelli che fanno nel concreto i salti mortali necessari per rendere reale ciò che Steve si immagina nella sua testa.
Il film ha un’impronta teatrale che focalizza l’attenzione sul “parlare”, sul botta e risposta costante tra protagonista e comprimari, in una spumeggiante brodaglia verbosa che non lascia spazio ai silenzi, i quali spesso valgono più di mille parole. Armati di un’empatia col Jobs di Fassbender pari zero ci avventuriamo nel labirinto della sua mente, alla ricerca di qualcosa che ci mostri il suo genio, o quantomeno il barlume di una qualche intelligenza superiore che ne giustifichi il mito. Almeno potremmo giustificare la sua folle stronzaggine nei confronti della figlioletta Lisa, che spesso schernisce con frasi taglienti quasi mosso da malizia. E invece vediamo solo un nevrotico ed egocentrico visionario dal piglio anaffettivo che passa il tempo a pretendere dagli altri cose che lui stesso non saprebbe minimamente fare, nascondendosi dietro una personalità da generale delle truppe più odiato che amato.
Steve Jobs arriva oltre l’onda di marea emotiva che spinse il mondo, nei tempi adiacenti alla sua morte, ad innalzarne la figura da semplice uomo a divinità del presente tecnologico, quella in cui stringevamo in mano il nostro iPhone e in qualche modo ci sentivamo riconoscenti verso l’uomo che lo aveva non-creato, che ci ha reso la vita più social, che ci ha dato l’iPad. Ora è diverso. Ora la Apple è solo la Apple, l’iPhone è solo un telefono e Jobs è solo un uomo uscito dal suo garage per inventare il futuro. Candidato a due premi oscar, miglior attore protagonista (Michael Fassbender) e miglior attrice non protagonista (Kate Winslet). Facciamo tutti il tifo per quest’ultima, vera star del film.