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È il day-after, a Cupertino. Sono trascorse ventiquattr’ore da quando, alle 6 e 35 del pomeriggio di mercoledì, Steve Jobs ha comunicato che avrebbe lasciato la posizione di amministratore delegato della Apple, che non avrebbe più seguito il giorno per giorno di questa straordinaria società identificata con innovazione, design, funzionalità e soprattutto con il suo nome. E in queste ore, nei «building» dove si progettano le nuove generazioni di iMac, di iPhone, di iPad, di iPod e di chissà quali altre diavolerie, si parla del futuro senza più il carismatico fondatore e visionario con un misto di fiducia, di apprensione e di commozione. «Sapevo che questo giorno sarebbe arrivato», commenta David DenBoer, un ingegnere a capo di un team di vendite al dettaglio. «Non sapevo che avrei pianto», dice.
Non è stato l’unico, anche se l’uscita di scena di Jobs, che prende il titolo di presidente del consiglio di amministrazione, formalizza una situazione già in atto da tempo. Perché Tim Cook, il suo successore, aveva già preso temporaneamente le redini della società nel 2004, quando Jobs aveva subito un’operazione per il cancro al pancreas, poi due anni fa quando si era sottoposto a un trapianto di fegato e quindi all’inizio di quest’anno, continuando a racimolare record di vendite e di profitti e andando a contendere alla Exxon la designazione di società di maggiore valore del mondo.
«Voglio rassicurarvi che la Apple non cambierà», ha fatto sapere Cook ai suoi 50mila impiegati. Che il passaggio del testimone non sia stato poi un evento così traumatico lo hanno confermato i mercati. Appena arrivata la notizia, il valore del titolo è sceso del cinque per cento, ma ieri era tornato oltre quota 370, con un calo di circa l’uno per cento. In linea con la caduta del Dow Jones.
A Steve Jobs è sempre piaciuto venire identificato non come un manager, ma come un leader. E come ogni buon leader ha saputo costruire attorno a sé un team molto forte. Oltre a Cook, c’e Jonathan Ive, per tutti «Jonie», responsabile del design e di quel «look and feel» che ha reso i prodotti della Apple diversi da quelli dei concorrenti. C’è poi Scott Forstall, a capo del team responsabile dei sistemi operativi e del software. E c’è Eddie Cue, responsabile dei servizi internet e uomo tuttofare. C’è infine Philip Schiller, che ha in mano il marketing.
«La buona notizia per la Apple è che per i prossimi due o tre anni la strada è già tracciata», sostiene David B. Yoffie, un professore della Harvard Business School. «Dall’80 al 90 per cento di ciò che accadrà in questo lasso di tempo non cambierà, anche senza Steve».
Ma dopo? Che cosa accadrà dopo? Cook, 50 anni, arriva nella sede di Cupertino tutte le mattine alle cinque, si fa mezz’ora di palestra e poi non esce sino alle otto di sera. Viene considerato un genio operativo: il suo forte sono la manifattura, le relazioni con i fornitori e le vendite. Ma potrà sostituire il fiuto di Jobs nell’intuire ciò che desidereremo tra cinque o dieci anni? Saprà replicare la stessa attenzione quasi maniacale al dettaglio?
Anche le presentazioni dei nuovi prodotti hanno una ritualità: con Jobs, sempre nella sua uniforme di jeans e maglione girocollo nero e sneaker, sono diventati un evento quasi religioso, condotto dal suo Messia.
Ma se a presentare l’iPhone 5 o l’iPad 3 sarà Cook la reazione sarà la stessa? «Senza Steve Jobs la Apple non è più niente», sostiene Trip Chowdhry, un analista per la Global Equities Research. La sua è un’ opinione di minoranza, che è fortemente contestata da Steve Wozniack, cofondatore con Jobs della Apple nell’ormai mitico garage.
«Steve ha una mente superiore», ha detto, «riesce a vedere il futuro come pochi ed è capace di contagiare gli altri. Ma la Apple è fatta di tante persone. E poi lui è qui, è ancora a vegliare e quando c’è bisogno è ancora raggiungibile».
Via lastampa.it
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