Parlare oggi di Steve Jobs senza scadere nell’agiografia è come parlare di Berlusconi senza scadere nel vituperio. Poiché sono sempre stata contraria al pensiero religioso (tipo bianco o nero, per intenderci) tenterò lo stesso. In un post su facebook alla domanda perché Steve Jobs non potesse essere italiano, rispondevo affermando che Steve Jobs è la quintessenza dell’America: cercherò di spiegare questo concetto.
Prenderò spunto dal discorso di Stanford. Il famoso discorso è un tipico esempio di “geremiade puritana americana”, il primo genere letterario sviluppatosi nel Nuovo Mondo di lingua inglese. La geremiade nella società puritana era sì un lamento contro le corruzioni del mondo, ma divenne soprattutto un veicolo di continuità sociale. “… serviva a celebrare le dure prove di un popolo unito da un patto di alleanza” (Sacvan Bercovitch, America Puritana, Editori Riuniti, 1992:16). “Le afflizioni di Dio erano come ‘il fuoco che affina’, volte a purificare e a rafforzare, oppure erano come la punizione inflitta da un padre amorevole, il segno della sua particolare attenzione.” (Giuseppe Nori in Sacvan Bercovitch, America Puritana, Editori Riuniti, 1992:XV) Il fatto che Jobs scelga la geremiade puritana come stile di discorso non è cosa da poco, il suo impatto tocca corde profondamente emotive del suo pubblico. Ai commentatori italiani è sfuggito questo particolare, ma il richiamo religioso profondo, quello radicato sui banchi della chiesa fin da bambini e ribadito in ogni manifestazione artistica americana, in particolare nell’industria cinematografica e televisiva, è di un impatto fortissimo.
L’impeto religioso di Jobs è radicato e si radica nel più profondo solco della tradizione religiosa americana, quella dei puritani del New England (con qualche spruzzata di anabattismo e buddismo californiano, come vedremo). Il genere letterario scelto per la sua prolusione pone Jobs nel pantheon dei padri fondatori, non quelli della Costituzione e del Bill of Right, ma in quelli più antichi del Mayflower, quelli che volevano costruire nel Nuovo Mondo la “Nuova Sion”, la nuova Terra Promessa frutto di un Patto con Dio. Il richiamo a queste profonde radici, all’ inconscio collettivo del suo pubblico, che questi testi li studia fin dalle elementari, non era certo scelto a caso: la terra promessa era lì in California, a Silicon Valley e la Apple la Nuova Sion di cui lui, Jobs, era il nuovo Abramo.
Il discorso di Stanford si dipana in tre punti, ormai famosissimi e anche questa scelta non è casuale, ma ricercatissima e raffinata. Infatti Jobs sceglie un sottogenere della “geremiade” classica dell’America puritana, la captive narrative , ovvero il racconto del puritano catturato dai selvaggi. Il genere si dipana in tre parti, nella prima parte il protagonista è alla ricerca di qualcosa, ma è incerto, insicuro, non ha chiaro ancora il volere di Dio, il suo disegno nei suoi confronti, il compito da svolgere, errand , che in genere implica un viaggio, uno spostamento nello spazio (analogo all’errare degli ebrei nel deserto dopo la fuga dall’ Egitto), ma questo viaggio è anche interpretato come un pellegrinaggio e un progresso. Nel primo punto del suo discorso Jobs sottolinea proprio questo: il viaggio fisico dalla madre biologica alla famiglia adottiva, ovvero da San Francisco a Mountain View (un nome profetico Mountain View, deve il nome alla vista delle Santa Cruz Mountains paragonabili al mosaico Monte Sinai) nella Silicon Valley e poi al Reed College di Portland, Oregon, (Reed significa canna ed analogo al cesto di canne in cui fu trovato Mosé) e qui in altro viaggio/pellegrinaggio/progresso nella scelta di abbandonare il curriculum ufficiale: “potei anche smettere di seguire i corsi che non mi interessavano e cominciai invece a capitare nelle classi che trovavo più interessanti.” Il percorso arriva fino al settimanale viaggio presso il tempio degli Hare Krishna per un buon pasto. Il riferimento agli Hare Krishna non è un simpatico spunto personale, ma un altro segno dell’errand puritano. Nel 1974 Jobs infatti ritorna in California, frequenta con Steve Wozniak lo Homebrew Computer Club e sempre con Wozniak trova un posto come tecnico all’Atari per mettere su i soldi per un viaggio in India. Steve Jobs va in India nel 1974 con Daniel Kottke, il primo impiegato della Apple e suo collega al Reed College. Jobs frequenta l’ashram di Neen Karoli Baba, un sadhu devoto del dio Hanuman e seguace del Bhakti Yoga (una pratica spirituale che favorisce una dedizione d’amore, bhakti, verso una personale forma di Dio, che nella cultura occidentale può sconfinare nel teismo) i cui insegnamenti erano seguiti da molti americani tra gli anni Sessanta e Settanta (un suo ashram si trova a Taos, New Mexico), il cui più famoso discepolo Ram Dass, emigrato poi in USA, fonda la Seva Foundation di Barkeley. In seguito a questa esperienza Jobs diventa buddista. In questo periodo egli fa anche uso di sostanze psicotrope, LSD in primis, un fatto contrario al buddismo classico, ma assolutamente in linea col buddismo new age californiano e negli ashram per occidentali.
Anche questo viaggio nell’inconscio e nell’allucinazione fa parte dell’errare, della ricerca del disegno di Dio che si manifesta. E’ un buddismo alla Hermann Hesse, il cui libro, Siddharta, era un must per la beat generation, e che guarda caso è anch’esso scandito su tre parti: la ricerca, la caduta nella tentazione, la redenzione. Jobs stesso afferma che “[quella con l'LSD fu] una delle due o tre cose più importanti fatte nella vita,” e che chi non avesse condiviso questa esperienza di controcultura non avrebbe mai potuto relazionarsi appieno col suo modo di pensare. Famosa è anche la battuta sarcastica che Jobs disse a Gates: “A Gates auguro ogni bene, davvero. Penso solo che lui e la Microsoft soffrano un po’ di ristrettezza di vedute. Sarebbe stato più aperto se solo da ragazzo avesse provato una volta l’LSD o fosse andato a meditare in India.” Questo errand, questa ricerca, questo progresso, non contrasta affatto con la tradizione puritana della ricerca del disegno di Dio, anzi come afferma lo stesso Jobs nel suo discorso, solo alla fine del lungo peregrinare il disegno di Dio è manifesto. “Ma è diventato molto, molto chiaro dieci anni dopo, quando ho potuto guardare all’indietro. Di nuovo, non è possibile unire i puntini guardando avanti; potete solo unirli guardandovi all’indietro”.
Anche la lunga digressione sulla calligrafia rientra nella tradizione protestante: fu la stampa a caratteri mobili di Gutemberg che permise lo sviluppo del protestantesimo tra i cui caposaldi sta il rapporto diretto con Dio, la lettura non mediata da un casta di sacerdoti delle Sacre Scritture (e infatti il primo libro di Gutemberg fu la Bibbia). Il rapporto diretto con Dio è una pietra miliare sia del puritanesimo che dell’anabattismo e si ritrova pari pari nelle sette pentecostali protestanti e, possiamo aggiungere, non è in contraddizione con gli insegnamenti del Bhakti Yoga. “Fu meraviglioso, in un modo che la scienza non è in grado di offrire, perché era artistico, bello, storico e io ne fui assolutamente affascinato.” La parola storico è di fondamentale importanza come pure il sentimento estatico che scaturisce della frase, un’estasi simile ai disegni sciamanici degli iniziati del peyote o alla perfezione della scrittura indu, che con un unico tratto, , calligrafico segno tracciato sulle foglie di pipal recita colla brezza del vento il suono della creazione. E la fine della prima parte è anche un inno alla “self-reliance” la “fiducia in se stessi”, un inno che chiude tutte e tre le parti e poi il discorso. La “self- reliance” è un “concetto più ampio e problematico che sintetizza i vari aspetti (radicali e pseudoradicali) dell’individualismo americano di metà Ottocento: ‘avversione’ alla ‘conformità’ e alla ‘coerenza’, ‘sicurezza in se stessi’, spirito ‘autosufficiente’, ‘spontaneità’ come ‘istinto’ o ‘intuizione’, funzione pragmatica dell’io, essere come ‘transizione’ e ‘divenire’, divenire come sviluppo delle possibilità individuali originarie e originali,” (Giuseppe Nori in Sacvan Bercovitch, America Puritana, Editori Riuniti, 1992:XVII). E Steven Jobs è perfettamente in linea col Self-Reliance di Ralph Waldo Emerson quando afferma; “Così, dovete aver fiducia che in qualche modo, nel futuro, i puntini si potranno unire. Dovete credere in qualcosa – il vostro ombelico, il destino, la vita, il karma, qualsiasi cosa. Questo tipo di approccio non mi ha mai lasciato a piedi e invece ha sempre fatto la differenza nella mia vita.”
La seconda parte sull’amore e sulla perdita ricalca fedelmente lo schema della geremiade e della captivity narrative: è il momento della caduta, della prova della fede di fronte alle minacce e alle tentazioni di un modo di vivere alieno. In questo caso il mondo alieno non è quello della wilderness, ma è quello del mercato “fordista”, del modo di produzione alla IBM. “…avevamo assunto qualcuno che ritenevo avesse molto talento e capacità per guidare l’azienda insieme a me, e per il primo anno le cose sono andate molto bene. Ma poi le nostre visioni del futuro hanno cominciato a divergere e alla fine abbiamo avuto uno scontro. Quando questo successe, il Board dei direttori si schierò dalla sua parte…” Il licenziamento è la prova che viene posta di fronte alla sua self-reliance così come Dio poneva di fronte al colono puritano la prigionia tra gli indiani. Presso i puritani la prova è analoga a quelle di Abramo, di Giobbe e a quelle di Geremia, solo la fede, l’amore in Dio ti può redimere. Non solo, la prova di quell’uno è anche un avvertimento di Dio in relazione alle anime di tutti i puritani e perciò la sola speranza di redenzione è Dio e il rinnovo del patto con la creazione della Nuova Sion. Nel caso del discorso di Stanford la “prova” è la conformità che ottunde la tua self-reliance, la tua intuizione, il tuo istinto e solo l’amore può redimerti, farti ottenere la redemption e insieme alla self-reliance la salvezza, ma anche, nella visione buddista, la buddhità. Ancora una volta il discorso di Stanford sottolinea la difficoltà nell’intravvedere il Disegno, ma ancora una volta Jobs sottolinea che l’avversità permette la transizione Emersoniana, il divenire come sviluppo delle possibilità individuali originarie e originali e perciò di conquistare la redemption. “Ero stato respinto, ma ero sempre innamorato. E per questo decisi di ricominciare da capo. Non me ne accorsi allora, ma il fatto di essere stato licenziato da Apple era stata la miglior cosa che mi potesse succedere.
La pesantezza del successo era stata rimpiazzata dalla leggerezza di essere di nuovo un debuttante, senza più certezze su niente. Mi liberò dagli impedimenti consentendomi di entrare in uno dei periodi più creativi della mia vita. [...] Qualche volta la vita ti colpisce come un mattone in testa. Non perdete la fede, però.”
La fede e la sua manifestazione come self-reliance, come ego direbbero alcuni, si manifesta soprattutto in quella “i” che precede tutti i prodotti dopo il suo rientro, “i” che in inglese significa “Io”, ma dove il gusto della perfezione calligrafica permette di scorgere anche altre suggestioni. La “i” (rigorosamente senza grazie) è in realtà formata da una I che significa io in inglese e da un puntino . che non è un vezzo, tipo la “i” la scrivo in minuscolo invece che in maiuscolo, come sarebbe graficamente corretto, perché mi è più simpatica, ma rappresenta il “bindu“, il punto metafisico da cui prese vita l’universo secondo la tradizione induista e buddista. Con quella “i” Steve Jobs indica in se stesso il nuovo fondatore della città di Sion, il rinnovatore del patto (Covenant), il punto da cui partirà un Nuovo Mondo, un nuovo Universo. Lui è il capo e il fondatore della Nuova Chiesa e non a caso è l’inventore dell’articolazione dello spazio lavorativo (la Pixar ne fu il primo esempio) come un open space convergente su un punto centrale il suo ego “i”. Questa esperienza si esternalizza nei negozi Apple che lui stesso disegna, organizzati come delle chiese: il banco con il prodotto al centro, punto focale, altare della nuova religione e le finestre ogivali come quelle di una cattedrale. In Italia non è facile vedere questa “purezza ideologica” di forme perché molti negozi sono in vecchi edifici, ma in America o in Cina (soprattutto) la struttura “ecclesiale” è evidente.
Come nella tradizione protestante Dio ti mette alla prova, anche nel Buddhismo, Gautama deve vincere l’ultima tentazione di Maya per raggiungere il Nirvana e la Buddhità. Ma la prova del singolo è anche un modo per controllare la fede dell’intera comunità, perciò il dio Apple (ovvero il CEO di Apple Steve Jobs) deve controllare tutti i suoi fedeli. In questo quando Jobs affermava “Molte volte la gente non sa quel che vuole finché non glielo fai vedere” o che il primo dovere della Apple non era di assecondare i clienti, ma convincerli che non potevano avere nulla di meglio (con buona pace degli amanti della Mela il rapporto era ed è da setta pentecostale o new age), egli era perfettamente in linea col capitalismo classico americano quello di Henri Ford secondo cui ognuno poteva avere una Ford Modello T del colore che preferiva purché questo fosse il nero. Ma in una religione il controllo o è totale o non è, il dubbio, come abbiamo visto appartiene alla prima parte dell’Odissea del credente, poi c’è la fede e l’amore e qui viene la dolente nota del controllo del software e dei contenuti che ogni apparecchietto con la “i” consente da parte della Apple: il fatto che da Cupertino possano modificare, conoscere i singoli movimenti del possessore/fruitore e imporre qualsiasi contenuto o ottenere qualsiasi informazione del cliente/adepto. Il Dio Apple mi sa tanto da “1984″ e “Minority Report”.
Secondo il puritanesimo una delle manifestazioni della benevolenza di Dio è la ricchezza materiale (cfr. Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo). A differenza del Cattolicesimo in cui il denaro è “la cacca del demonio” e dove il denaro e il lavoro sono una maledizione di Dio dopo il peccato originale, per i calvinisti e i puritani lavoro e denaro sono una benedizione e una dimostrazione del favore divino. Il discorso di Stanford è esemplare in questo, non solo il credente viene messo alla prova, ma quando è rigettato nella “miseria”, si riscatta sempre attraverso un duro lavoro ed è premiato da una profusione di denaro (la Apple è l’azienda più quotata in borsa, e con la sua liquidità potrebbe appianare il debito greco con un clic!). Dal discorso di Stanford il denaro non sembra importante, un colpo di genio visto la scarsa stima nei “banchieri”, ma in realtà non ce ne è bisogno, il messaggio è abbi fede e i soldi arriveranno, lavora dandoci l’anima e i soldi arriveranno come segno della grazia divina (quasi, quasi Jobs è un veneto onorario!). E infatti non solo Jobs era attento al denaro (con investimenti immobiliari a New York e anche il famoso stipendio da 1 dollaro era una buona trovata sia pubblicitaria che fiscale, dato che le tasse sui capitali azionari sono bassissime e sono ancora scese grazie a G. W. Bush, mentre le tasse sul reddito da lavoro sono molto più alte), ma come anche il suo discorso di Stanford dimostra era a favore di un precariato spinto e non vedeva di buon occhio la sicurezza sociale. Alcuni suoi dipendenti affermarono, in interviste rigorosamente anonime, che il terrore a Cupertino era di trovarsi in ascensore con Jobs, infatti quando le porte si aprivano non sapevi se avevi ancora il tuo lavoro. Ma notoriamente trovarsi disoccupati era un modo per metterti alla prova. Il buddismo di Jobs invece può giustificare la scarsa propensione di Apple e Jobs per le opere di carità, un atteggiamento che è valso alla Apple il nomignolo di Grinch o di Ebenezer Scrooge (quello del Racconto di Natale di Dickens). In questo egli (e la Apple) si distinguevano dal classico filantropismo pietistico protestante che ha sempre caratterizzato il grande capitale americano da J. D Rockefeller a H. Morgan. Se però consideriamo che nell’induismo il benefattore che ti salva la vita diventa responsabile come un genitore del salvato, il concetto è chiaro, e il discorso di Stanford è chiarissimo, chi non supera la prova (chi necessita di carità non ha il favore di Dio), deve essere spazzato via, il vecchio deve fare posto al nuovo: “Il vostro tempo è limitato, per cui non lo sprecate vivendo la vita di qualcun altro. Non fatevi intrappolare dai dogmi, che vuol dire vivere seguendo i risultati del pensiero di altre persone.” I perdenti non vanno aiutati, aiutandoli impedirete loro di proseguire nella loro “errand” e di giungere alla self-reliance. L’unica “opera di carità” in cui Steve Jobs si applicò fu di far cambiare la legge sulle donazioni di fegato della California. Ma su questo punto torneremo in una prossima puntata.