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Che Steve McCurry sia un grandissimo fotografo non c'è dubbio. Anche chi non ne conosce il nome ha sicuramente visto qualcuna delle sue foto, la più famosa delle quali è certamente quella della giovane ragazza afghana dagli occhi verdi che è stata anche scelta come copertina della mostra romana.
Le altre foto non sono da meno, innanzitutto gli straordinari ritratti nei quali McCurry riesce sempre a cogliere espressioni intense e sorprendenti, ma anche i paesaggi con figure umane, le scene di vita vissuta, le nature morte.
In tutte le sue foto sono riconoscibili un grande amore e una grande capacità di rappresentare la varietà di colori del mondo che ci circonda nonché una straordinaria curiosità per l'umanità, i suoi modi di vivere, le diverse culture, i contrasti profondi, le indicibili bellezze e bruttezze di cui l'uomo si rende protagonista.
La qualità tecnica delle foto di McCurry è altissima. È difficile trovare veri difetti nelle sue foto, ognuna delle quali ha una qualità estetica tale da farne un vero e proprio quadro.
Le sue sono fotografie divulgative, direi quasi didascaliche per il modo diretto in cui rappresentano un'emozione o una condizione precisa. Diciamo che le sue foto sono letture semplici, senza essere semplicistiche, nonostante a volte rischino di fornire una visione un po' troppo stereotipata della realtà, o forse sarebbe meglio dire "attesa", cioè non sorprendente dal punto di vista dei contenuti, ma semmai solo dal punto di vista della forma estetica e della bravura del fotografo.
Detto ciò, le fotografie di Steve McCurry sono emotivamente molto coinvolgenti, e non è difficile leggere nei volti delle persone che visitano la mostra turbamento, commozione e partecipazione, anche di fronte a mondi e culture lontane e diverse.
Certamente l'allestimento di Fabio Novembre contribuisce ad accrescere ulteriormente la leggibilità di queste fotografie, visto che sceglie un'esposizione per gruppi di foto legate non dal luogo o dal momento, bensì da assonanze emotive, da connessioni mentali, da contatti visivi. Tali gruppi di foto occupano delle aree autonome, ma collegate le une alle altre, una specie di igloo realizzati con una struttura di acciaio cui sono appese le foto.
Sarà che ho visto la mostra durante uno degli ultimi fine settimana di programmazione, ma l'allestimento - che sarebbe stato perfetto se fossi stata al massimo con un altro paio di persone in ciascun igloo - risultava invece claustrofobico nel momento in cui 15-20 persone si intralciavano a vicenda per poter guardare le foto a una distanza accettabile e leggere le didascalie.
Devo aggiungere che per il mio gusto personale le scelte di accostamento delle foto - pur molto spesso suggestive e in linea con lo stile del fotografo - risultava talvolta un po' lezioso, talaltra eccessivamente banale. Solo raramente gli accostamenti suscitano sorpresa, aprono spiragli, creano spazi di immaginazione e forniscono lo spunto per idee e prospettive personali e originali.
In conclusione, una mostra decisamente da vedere, di quelle che riempiono gli occhi e che certamente fanno venire voglia di conoscere e approfondire alcune realtà e alcuni mondi per noi lontani. Mi è mancato però l'effetto spiazzante che mi aspetto da un prodotto come la fotografia che considero una forma d'arte. È chiaro, Steve McCurry è un fotoreporter, un documentarista della fotografia. Però da uno che fa delle foto così straordinarie forse si poteva tirare fuori qualcosa di più.
Voto: 3/5
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