STEVEN ADLER – My appetite for destruction (Chinaski)

Creato il 28 novembre 2013 da Cicciorusso

Ci sono due tipi di fan dei Guns’n'Roses. Quelli per i quali i due Use Your Illusion erano già di troppo e tutti gli altri. Io appartengo alla prima categoria. Appetite For Destruction lo ascolto ancora spesso. È uno dei migliori dischi rock mai incisi a memoria d’uomo. O no? Insomma, sono tra coloro che considerano Contraband dei Velvet Revolver quanto di più vicino esista all’ideale successore di quello stramaledettissimo capolavoro e ai quali non è mai venuta la fantasia di sentire Chinese Democracy manco per curiosità. I Guns erano Axl, Slash, Duff, Izzy e Steven. E basta. Ci tiene a ribadirlo lo stesso Adler in questa sua autobiografia e io, sinceramente, sarei d’accordo.

Il batterista è il terzo membro della formazione storica ad affidare alla carta le sue memorie (il primo era stato Slash, nel 2007, poi, qualche anno dopo, toccherà a Duff McKagan) ed è quello che ha lasciato la testimonianza più dolorosa e, proprio per questo, più interessante. Dolorosa non tanto per le dinamiche del suo allontanamento (da lui vissuto come un autentico tradimento), avvenuto poco prima dell’inizio delle registrazioni di Use Your Illusion, quando era comunque troppo devastato per garantire affidabilità a una band lanciata verso la conquista del mondo, quanto per l’irresoluto disagio che si respira nelle pagine successive al racconto di quell’evento. Le biografie delle rockstar vengono solitamente stese una volta raggiunta una pacificazione personale che consente di rapportarsi con distacco e un po’ di (mal)sana autoindulgenza a un passato di eccessi insostenibili e sprezzo per il proprio spirito di autoconservazione. Vale per la biografia di Slash, che ora è un placido milionario con famiglia ancora in grado di riempire gli stadi. Vale per i Mötley Crüe, che con The Dirt ci hanno regalato il libro rock definitivo ma ormai una regolata se la sono data. Vale, che so, per Nick Kent. Steven Adler invece sta ancora a pezzi. Non c’è catarsi a fine lettura, tutt’altro. Anzi, non c’è nemmeno un vero e proprio “finale” (la data di pubblicazione Usa è il 2011, quindi non viene dato conto del recentissimo scioglimento degli Adler’s Appetite, che comunque non lo avevano aiutato più di tanto a riguardarsi). Per quel che ne sappiamo, Steven, in questo momento, potrebbe benissimo essere di nuovo in clinica attaccato a una flebo. La bravura di Lawrence Spagnola, il giornalista che lo ha affiancato, sta nel non aver mediato il flusso di coscienza del batterista, che descrive con un’onestà disarmante una spirale discendente fatta di ventotto overdose, tre tentativi di suicidio, un paio di arresti e un infarto.

Le figure intorno alle quali finisce per girare il libro sono la madre e Slash, gli unici a non essere citati nei ringraziamenti, dove si menziona perfino Axl che, individuato in Adler l’anello debole della catena, ne farà presto il Jason Newsted della situazione (e che, però, sarà il solo a presentarsi al suo capezzale ospedaliero dopo un’overdose più pesante del solito). Quella madre che gli era stata vicina anche nel nadir del degrado ma per la quale Adler riesce a spendere parole di odio sconcertanti poco prima della conclusione. Quello Slash, con il quale aveva fondato la band da adolescente, che prima si fa complice silente della sua defenestrazione e poi, anni dopo, lo va a prelevare a casa con la forza per l’ennesimo rehab destinato a fallire miseramente. Ci avrà messo parecchio del suo, ma Steven Adler è uno che dalla vita l’ha presa pesantemente in quel posto. Molta gente con trascorsi analoghi l’ha passata molto più liscia, dai. Il candore con cui racconta una lacerante parabola senza lieto fine possibile, l’assenza di rancore verso chicchessia, intervallata da lancinanti esplosioni di risentimento, il suo riuscire comunque a spendere una buona parola per tutti (magari rimangiandosela poco dopo) sono i motivi che rendono My appetite for destruction una lettura così coinvolgente. Anche perché la morale è universale: se non si è provvisti di una buona dose di fortuna e cinismo, questo mondo è troppo crudele per potersi permettere di perdere il controllo di se stessi.



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