di Enrico D’Amelio
Il calcio è un fenomeno sociale, specchio dell’antagonismo che storicamente ha contraddistinto ogni uomo. Questo, con tutta probabilità, lo ha portato ad essere un rito così longevo, con una storia plurisecolare, destinato a durare nel tempo nei vari angoli del mondo. Ogni paese, però, è figlio della propria cultura che da sempre ne ha caratterizzato l’essenza. Se pensiamo all’Inghilterra, ad esempio, una sola parola può balenare alla nostra mente: tradizione. Lì, il 26 ottobre del 1863, è nato il football. Regno Unito sinonimo di storia e leggende, come quelle esibitesi in un tempio (chiamarlo stadio sarebbe riduttivo) che non ha eguali nel mondo come fascino e mito: Anfield.
Quando si varcano quei cancelli, da spettatore o attore protagonista, nulla potrà più rimanere come prima. Centinaia di migliaia coloro i quali ne hanno fatto parte in 129 anni di vita (la fondazione risale al lontano 1884), una sola la presenza costante: quella delle undici maglie rosse del Liverpool Football Club. Non ce ne vogliano i più giovani, possibili simpatizzanti di un Chelsea diventato dalla fine degli anni ’90 una delle squadre più in vista del paese e non solo, o di quell’Arsenal raccontato magistralmente dallo scrittore Nick Hornby in un libro oramai di culto, ma la rivalità che da sempre spacca in due il paese della Regina è quella che vede protagoniste Liverpool e Manchester United. Circa 80 i chilometri che dividono le due metropoli, lontane non solo logisticamente dalla Londra cosmopolita e multietnica. La working class al potere, con storie che vanno oltre il campanilismo puramente calcistico. Si narra che un tassista di Liverpool, ogni qual volta dovesse condurre un passeggero nell’odiata città rivale, abbassasse il finestrino e sputasse a terra una volta arrivato a destinazione, per sottolinearne odio e disprezzo.Da alcuni anni, complice l’egida quasi trentennale di Sir Alex Ferguson, i Red Devils sono diventati la squadra più titolata d’Inghilterra, con 19 titoli nazionali contro i 18 dei rivali, ma i Reds sono avanti 5 a 3 a livello di Coppe dei Campioni, con l’ultimo successo arrivato nel 2004/05, al termine di una rocambolesca, storica finale contro il Milan di Carlo Ancelotti in quel di Istanbul. La rete di capitan Maldini, la doppietta di Hernan Crespo, per un 3-0 all’intervallo che aveva il sapore dell’umiliazione. Lì, dopo alcuni anni di anonimato, l’anima della Merseyside è riemersa dalle ceneri, con protagonista un ragazzo di Liverpool entrato nella leggenda: Steven Gerrard. E’ lui, con il gol che ha accorciato le distanze, a prendere per mano i suoi. Poi tocca a Smicer segnare la rete del 3-2, fino al pareggio arrivato grazie a Xabi Alonso, dopo che il tiro dagli undici metri era stato respinto da Nelson Dida. E poi i supplementari, le parate incredibili di Dudek su Shevchenko e, infine, la lotteria dei rigori.
Steven Gerrard il predestinato. Quello che, nella sua autobiografia, ha rivelato di giocare per il cugino Joh-Paul Gilhooley, morto a dieci anni nella tragedia del 1989 di Hillsborough durante la semifinale di Coppa di Lega contro il Nottingham Forest. Quello che a 19 anni, dopo essere stato sorpreso insieme ad alcuni suoi giovani compagni in un pub a tarda notte, ebbe la maturità di dire: “Mi vergogno. Non per me stesso. Ma perché con la mia bravata ho infangato il nome del Liverpool Football Club”. Quello che rinuncia ad andare nei club più forti d’Europa per alzare la Champions League con la maglia rossa, il numero 8 sulle spalle e la fascia di capitano al braccio. Quello che, con una moglie bellissima e tre splendide figlie, ha l’ardore di dire: “Quando starò per morire, non portatemi in ospedale, ma ad Anfield. Qui sono nato e qui voglio morire”. Certamente, Steven. Ma prima altre battaglie t’aspettano. Con la maglia rossa, all’interno del tempio. E con una curva capace di spingere il pallone in rete, quei 20000 vessilli che sventolano e un canto che risuona incessante, sulle inconfondibili note di “You’ll never walk alone”.