Stiamo diventando il pianeta delle scimmie
Creato il 19 giugno 2013 da Astorbresciani
La teoria evoluzionistica di Darwin non cessa di tenere banco. Il comportamento umano conserva inquietanti analogie con quello dei primati e non è fuori luogo pensare che stiamo diventando il pianeta delle scimmie. Pensiamo a Mizaru, Kikazaru e Iwazaru, per fare un esempio. Chi sono? Sono le famose Sanzaru, le “Tre scimmie sagge” della cultura giapponese. La prima non vede, la seconda non sente e la terza non parla. Spesso chiamate in causa come simbolo dell’omertà (non vedono, non sentono e non parlano del male) esprimono per estensione un difetto sempre più diffuso nella società del benessere: l’indifferenza. L’essere umano mostra una propensione pronunciata all’indifferenza verso ciò che accade attorno e in ciò è dimentico di fare parte del tutto. Ci comportiamo come se fra noi e il resto del mondo (il famoso “prossimo” del Vangelo) si fosse creata una frattura insanabile. Non ce ne frega niente degli altri, non ci riguarda. Anzi, ci infastidisce e perciò voltiamo la testa dall’altra parte. L’ultimo esempio di come la gente sia diventata indifferente al dolore altrui e persino alla morte, è stato offerto l’altro giorno dai bagnanti di Formia, sul litorale pontino. È accaduto che una donna anziana sia morta dopo un malore capitatogli mentre era in acqua. Il corpo di questa turista straniera è stato disteso sulla spiaggia, a pochi metri dagli ombrelloni, e mentre i sanitari del 118 tentavano invano di rianimarla, i bagnanti continuavano imperterriti a passeggiare, prendere il sole, entrare in acqua, giocare a racchettone e persino scambiarsi effusioni amorose a pochi passi dal cadavere. Il triste fatto mi riporta alla mente episodi analoghi. Nell’agosto 2011, il cadavere di un uomo rimase sotto un ombrellone per tre ore a Ostia, tra l’indifferenza generale della folla. Al massimo, gli astanti buttano un occhio, ma solo per curiosità, fanno qualche commento idiota e poi si rituffano in mare o addentano una fetta d’anguria. Che dire? La pietà è defunta e il genere umano non gode certo di buona salute se è vero, come scrisse Cechov nella sua Una storia noiosa, che “l’indifferenza è la paralisi dell’anima, una morte prematura”. Concetto ribadito da Kahlil Gibran, per il quale “l’indifferenza è già metà della morte”. Ormai siamo abituati a comportarci come le tre scimmie sagge. Pensiamo sia il male minore e perciò riusciamo a giustificarci, ad assolverci. In fondo, l’indifferenza ci permette di stare lontani dai guai, di non essere coinvolti, di rimanere spensierati e di sopravvivere, anche se parzialmente defunti. In fondo, ha una forza rassicurante, vitale. Secondo Pavese, è l’indifferenza che ha permesso alle pietre di durare immutate per milioni di anni. Come dargli torto? Più che alle scimmie, assomigliamo alle pietre. Chiunque, nel corso di una giornata qualunque, ha modo di notare che le strade sono affollate di passanti distratti e noncuranti, affetti da un’indifferenza di sasso verso gli altri (soprattutto i reietti). Il genere umano, colpito dalla perdita dei valori morali, soffre dunque di una malattia psicologica contagiosa che lo porta ad alienarsi, a richiudersi in se stesso come un riccio. Siamo affetti dalla sindrome della coscienza pulita. Pulita, certo, ma perché non la usiamo. È come se la nostra coscienza fosse andata in ferie prima di noi, avesse abdicato per manifesta incapacità di adeguarsi allo spirito del tempo, che detta regole ciniche, egoistiche e perverse cui non sappiamo più opporci. In definitiva, conviene adattarsi, arrendersi. Qualcuno dirà che l’indifferenza non è poi il peggiore dei mali e che se le tre scimmie giapponesi sono definite “sagge” una ragione ci sarà. Per quanto nella filosofia antica, in particolare fra gli scettici e gli stoici, fosse diffusa l’idea che il saggio dev’essere imperturbabile (atarassia), libero dalle passioni (apatia) e indifferente nelle preferenze (adiaforia), non credo che tapparsi la bocca e gli orecchi e chiudere gli occhi sia la via migliore per la felicità. Personalmente, non condivido nemmeno il pensiero morale di Schopenhauer, che propugna l’indifferenza ascetica come via di fuga. Gli esistenzialisti giustificavano l’indifferenza, la consideravano la risposta più corretta all’inutilità, precarietà e assurdità della vita umana. Potrei continuare e chiamare in causa Heidegger e Sartre, per il quale l’indifferenza altro non sarebbe se non il fallito tentativo di acquisire una precisa configurazione di sé, della propria coscienza attraverso la relazione con l’altro. Ma non voglio diventare noioso. Fa già caldo nonostante siano solo le nove del mattino e capisco che il cervello ha voglia di svago e non di elucubrazioni. Resta il fatto che mi rattrista riconoscere nei miei simili stili di vita degni di un primate. Come soccorritore del 118 mi è capitato tante volte di affrontare situazioni dolorose in cui i cosiddetti “astanti” (ciò le persone presenti sul luogo di un evento sanitario drammatico) hanno dato prova di indifferenza o, peggio ancora, di attenzione morbosa e fastidiosa, che è il contraltare dell’empatia. Ci si butta anche fisicamente su un incidente per vedere il morto, non per interesse nei confronti della vita. Ci si sbraccia per curiosità, non per solidarietà. Salvo defilarsi quando ci si accorge che lo spirito d’iniziativa può comportare un’assunzione di responsabilità. Eppure, grazie al cielo, non tutti gli esseri umani sono indifferenti o vili. Anche quest’anno, come capita ogni estate, qualche giovane coraggioso si tufferà in acqua per salvare qualcuno che sta annegando. E speriamo che continuino ad esistere gli altruisti che intervengono per sventare un furto, bloccare uno stupratore, difendere un debole o semplicemente aiutare chi sta male. Auguriamoci che i generosi non spariscano dalla circolazione e che ci siano sempre uomini e donne che si rifiutano di fare come le tre scimmie giapponesi. Altrimenti, prima o poi ci ritroveremo a ripetere le parole che il capitano Taylor pronuncia nel film Planet of the Apes (l’originale del 1968) scrutando lo spazio: “Mi sento solo”. È forse questo il lato peggiore dell’indifferenza, condannarci alla solitudine.
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