C’è una cosa su cui Alice Howland ha sempre contato: la propria mente. E infatti oggi, a quasi cinquant’anni, è una scienziata di successo, invitata a convegni in tutto il mondo, che ha studiato per anni il cervello umano in tutto il suo mistero. Per questo, quando a una importantissima conferenza, mentre parla davanti a un pubblico internazionale di studiosi come lei, Alice perde una parola – una parola semplice, di cui conosce benissimo il significato – e non riesce più a ritrovarla nel magazzino apparentemente infinito della sua memoria, sa che qualcosa non va. E che nella sua testa sta succedendo qualcosa che nemmeno lei può capire. O fermare. La diagnosi, inimmaginabile fino a un momento prima, è di Alzheimer precoce. Da allora, Alice, perderà molte altre parole. Perderà pian piano i nomi – per primi, quelli delle persone che ama, suo marito, i tre figli ormai adulti. Perderà i ricordi, ciò che ha studiato, ciò che ha fatto di lei la persona che è. In questo viaggio terribile la accompagnerà la sua famiglia: il cui compito straziante sarà di starle vicino, di gioire con lei dei rari momenti, luminosi e fugaci, in cui Alice torna a essere Alice. E, soprattutto, di imparare ad amarla in un altro modo.
Ho letto questo romanzo per due motivi: avevo bisogno di capire come l’Alzheimer precoce rappresentasse un nemico se possibile persino più subdolo del cancro, e perché mi era stato consigliato da una cara amica. Non ho visto il film e non so se avrò il coraggio di farlo. Già la lettura è stata molto complicata da digerire, soprattutto nella parte in cui si fa riferimento ad analisi che possano mettere in luce la presenza del gene della malattia anche nei parenti degli ammalati. Ho esperienza diretta dell’Alzheimer e un’ipotesi del genere è agghiacciante per me: vorrei saperlo o no se sono destinata a spegnermi in quella maniera così devastante, riducendomi a una bambola di pezza chiusa in una campana di vetro appannato?