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La problematica principale di un prodotto come Still Life (2005) è che, proponendosi di seguire i binari del “reale”, tradotto: la cittadina di manichini è un suggerimento induttivo a pensare che la realtà diegetica sia fallace, qualcosa di simile al frutto di una mente sballata, spinge a spostare il carico del gradimento tutto sulla soluzione finale, una soluzione che per via di questa pre-impostazione dimostra, nel suo accadere, nel suo esserci, i criteri plastificati della confezione, del sentirsi in obbligo a sacrificare una sempre auspicata intemperanza “di penna” in favore di una logica ammaestrata come quella del ribaltamento narrativo. Non viene messo in discussione il coup de théâtre che comunque può avere una cifra inaspettata anche per i più navigati, ma, a monte, la sua presenza e l’importanza attribuitagli; Knautz non si prende nessun rischio, si muove su una carreggiata uguale a quella che immortala nell’incipit: semplicisticamente dritta.
L’architettura così posta si allinea al processo di fruizione/assuefazione, nucleo dello smercio da botteghino: la platea si domanda (quale è la soluzione?) e il regista chiaramente risponde (è questa qua). Messo in conto che la coscienza critica di chi il cinema lo fa rimare con entertainment è parecchio sonnacchiosa, facciamo racimolare a questo regista canadese specializzatosi negli anni nell’ambito thriller-horror (con una eccezione simil-parodistica: Jack Brooks: Monster Slayer, 2007) un paio di note positive: l’idea dei manichini, sebbene debitrice a The Twilight Zone, produce l’effetto giusto, soprattutto per l’utilizzo che viene fatto dei corpi inanimati, i quali, per forza del contrasto, riescono ad apparire minacciosamente incombenti. L’aspetto meno allo scoperto che traduce lo smarrimento del protagonista raggiunge la soglia dell’accettabilità anche perché i rigidi confini temporali non potevano permettere più di tanto.
Figlio di un budget esiguo (ma 27000 € e rotti per nove minuti di girato sono davvero così esigui?), Still Life è cortometraggio che si gioca la carta dell’imitazione, dell’obbedienza al gusto e al volere altrui; è piaciuto (7 e passa di media su IMDb) e continuerà a piacere, ma da queste parti, per guadagnarsi almeno un biscottino, è indispensabile andare oltre lo stimolo condizionante.
Postilla.Quanto rimproverato al film di Jon Knautz ha fatto sorgere dubbi nel sottoscritto che esulano dalla singola visione di Still Life; più che altro soffermandomi sulla sua struttura sono stati pressoché automatici i rimandi a due recenti opere che utilizzano un medesimo schema, mi riferisco a Il sesto senso (1999) e a The Others (2001), duo (il cui apprezzamento non è mai mancato da parte del pubblico) che poggia le sue fortune sul colpo di scena finale. Personalmente al tempo in cui le vidi rimasi parecchio affascinato nonché stupito, ma adesso riconosco che sia Shyamalan che Amenábar hanno costruito due pellicole in funzione delle rispettive conclusioni, soggiacendo a costrizioni limitanti e autoimponendosi come fine quello di “raggirare” lo spettatore. Nulla da dire sulla realizzazione di ambo i film, di sicuro però non è mai troppo tardi per una... svalutazione.
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