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Stoker: Sympathy for Uncle Charlie

Creato il 17 giugno 2013 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Cristian Sciacca 17 giugno 2013 Stoker: Sympathy for Uncle Charlie

Dopo il successo planetario della trilogia della vendetta, il simpatico esperimento di I’m a Cyborg, But That’s OK e il torbido Thirst (gli ultimi due inediti in Italia), il sudcoreano Park Chan-wook torna sul grande schermo col suo primo film anglofono e prodotto negli USA. Stoker è un quadretto familiare che ha al centro la diciottenne India (Mia Wasikowska), asociale e irrequieta, appena rimasta orfana del padre, che insieme alla madre (Nicole Kidman), subisce l’irruzione nella sua vita dello sconosciuto zio Charlie (Matthew Goode), fratello minore del genitore deceduto. Charlie, che India e la madre credevano in giro per il mondo da una vita, si mostra da subito misterioso ed attratto dalla nipote, con cui scopre di avere diverse cose in comune, mentre allo stesso tempo flirta con la cognata. Intanto, in città alcune persone iniziano a scomparire e non passa molto tempo prima di scoprire la verità sui diversi personaggi. L’esordio ad Hollywood costituisce spesso per alcuni registi non anglofoni la prova del nove: nel caso dell’ultima fatica di Park, c’è da augurarsi che questa prova non abbia precisione matematica. Perché Stoker è un film così ricco di punti deboli che non si riesce a capire quale sia quello che pesa di più.

Stoker: Sympathy for Uncle Charlie

Non si capisce se la colpa è della sceneggiatura, firmata da Wentworth Miller (lo Scofield di Prison Break, qui accreditato come Ted Foulke): a volte lenta ed involuta, altre frettolosa e sfilacciata, si affida a qualche frase ad effetto per conquistare lo spettatore, ottenendo spesso l’esito opposto. Il dialogo sulle scale all’inizio fra India e Charlie è eloquente in merito. Non si capisce se la colpa è delle sue ambizioni: non basta puntare su audacia e scandalo o mostrare un approccio freudiano per giustificare un vizietto familiare, quello della violenza vista come pulsione sessuale. Per la cronaca, questo tema è stato trattato in maniera più convincente già altre volte, specie in Crash di Cronenberg. Non si capisce se la colpa è dell’intreccio: quello che era il fiore all’occhiello di Oldboy, qui si rivela una struttura tremendamente prevedibile, telefonata, che punta sul colpo di coda pre-finale, in realtà intuibile già dai primi dieci minuti.

Stoker: Sympathy for Uncle Charlie

Non si capisce se la colpa è del cast, o meglio, non sembra, perché qui le carenze sono decisamente meno pesanti: non fosse altro che per la Kidman, non ancora logora o vanesia, che quando è in scena dà l’illusione di assistere ad un’opera di qualità. Il resto è affidato al ghigno monoespressivo di Goode, già saggiato nell’altrettanto ambiguo Ozymandias in Watchmen, e alla Wasikowska: sicuramente non aiutata dall’anemico ruolo, la giovane australiana conferma quanto di insipido aveva mostrato nell’Alice in Wonderland di Burton e (un po’ meno) in Jane Eyre. Nessun accanimento, il tempo è dalla sua, fatto sta che al momento la sua India si dimostra una copia un po’ più weird di Mercoledì Addams, il che è tutto dire. Non si capisce, infine, se la colpa è solo ed esclusivamente di Park: a cosa serve un talento tecnico e visivo debordante se si punta solo sulla forma? A cosa servono magistrali movimenti di macchina se messi al servizio di scene forzate ed autoreferenziali? A cosa serve andare ad Hollywood a fare un film scomodo nelle intenzioni, solo morboso nella resa, se il tuo lavoro lo facevi alla grande a casa tua? Riprenditi, Park, ne abbiamo bisogno! Perché Stoker ti lascia deluso come una persona che ti regala per il tuo compleanno una stilografica, quando qualche anno prima ti aveva donato un soggiorno in una Spa di lusso.

Stoker: Sympathy for Uncle Charlie


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