Ansia esistenza sovrana. Giorgio Todde, Dieci gocce, Milano, Frassinelli, 2009
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di Giuseppe Panella*
Giorgio Todde è un medico (per la precisione un oculista) ma il suo non è un medical thriller. Dopo cinque romanzi noir dedicati al medico-imbalsamatore Efisio Marini (un personaggio realmente esistito), questa sua narrazione dedicata alla storia di un’angoscia durata tutta la vita è tutto fuorché una vicenda dal taglio diagnostico (e quindi consolatorio). Mario ha sempre sofferto di ansia, di svenimenti, di trasalimenti legati alla salute e alla necessità di vivere comunque una vita normale, come tutti fanno nel corso del tempo che passa. Archivista modello, creatore poetico di altrimenti gelide pratiche burocratiche che cerca di arricchire di umanità, Mario ha bisogno di una vita inquadrata entro perimetri ben definiti, quasi ferrei, per non stramazzare sotto il peso di essa. Sua madre, rimasta solo dopo la morte del padre ma ormai insofferente alla presenza costante del figlio in casa, vorrebbe che il suo unico e immobile rampollo si sistemasse e la lasciasse vivere fino in fondo la sua relazione con il pur anziano dottor Cosimo, da molto tempo medico di famiglia. E’ quest’ultimo a prescrivere a Mario le “dieci gocce” di tranquillanti che danno il titolo alla narrazione di Todde. Ma le gocce non sempre bastano e anche una vita che eviti ogni compromissione con il mondo esterno (esemplare è l’abitudine di Mario di andare al lavoro rigorosamente chiuso nella sua automobile con i finestrini praticamente sigillati) non è sufficiente a preservare dall’impatto spaventoso con una vita odiata e temuta. Un giorno, però, una ragazza dal “collo indifeso” e dalle belle ginocchia unite gli passa a fianco anch’essa difesa da un’automobile ben chiusa. Il collo e le ginocchia di quella donna lo attirano ma Mario cerca di evitare la tentazione. Aprirsi e proiettarsi all’esterno gli sembra troppo pericoloso:
«Il giorno dopo fu identico, anche in cielo. La ragazza dal collo indifeso mancò nel paesaggio ostile di Mario. Se non la vedo è sicuro che non ci penso. L’inerzia non ha bisogno di essere sostenuta e per questo si sentiva al sicuro. Un’azione involontaria, però, aveva iniziato a produrre conseguenze nel suo sottosuolo. Così, per tutta la giornata provò la sensazione microscopica di una conseguenza grande. Il suo deserto urbano era peggiorato dalle gambe, deboli anche se non lo erano, dalle mani grassocce che gli tremavano e dal collo che non riusciva a sostenere la testa. E ogni superficie nella quale si vedeva specchiato lo faceva precipitare nel dolore per come era fatto, per la sua forma che non aveva mai voluto, neppure da bambino, e che ora gli procurava una sofferenza ostinata. Il cuore – che, alle volte, più coraggioso, capiva tutto – batteva normale ma imbarazzato» (p. 12).
Per sfuggire alla tentazione della ragazza, Mario ha una relazione con Tosca, un travestito, del quale si innamora anche se poi resta, nonostante l’investimento affettivo dell’uomo, una relazione di tipo mercenario. Questa condizione sarà mitigata, in seguito, dall’ affetto sincero dell’uomo che si prostituisce ma che, però, nonostante senta qualcosa per lui, non accetta di legarsi in una relazione stabile con l’impiegato. La delusione frutto di questo fallimento porta Mario a decidersi e a compiere una scelta radicale. Spinto dalla madre, rinforzato nei suoi propositi dalle gocce prese precedentemente, Mario si presenta davanti al portone del palazzone di mattoni dove si trova l’ufficio in cui lavora la ragazza e le chiede di venire in macchina con lui. Dopo un incerto e balbettante corteggiamento, Alda (è questo il nome della donna) diverrà prima la sua amante e poi sua moglie. Ma il matrimonio (e poi la paternità) non guarisce l’uomo. Le gocce restano l’unico rimedio sovrano per l’ansia e l’angoscia di vivere. E’ vero che Alda diventerà presto fondamentale per Mario e la sua presenza costituirà per lui una sorta di ancora di salvezza, un’iniezione di energia forte e quasi inestinguibile:
«Mario era divenuto, sotto certi aspetti legati all’energia e al moto, un’emanazione della vitalità di Alda, un’appendice della moglie che produceva forza per tutt’e due. E si assopiva sino all’immobilità quando lei, vicina, si muoveva, decideva e compiva azioni. Lui pensava costantemente alla morte e, dopo le nozze, anche alla morte di lei e a quella del bambino che si erano sommate alla sua. Faceva spesso un sogno mattutino. Trovava morti, al suo risveglio, Alda e Michelino e sentendoli freddi pensava a quanto poco era bastato, a come sembrava piccola, quasi invisibile, la differenza tra questo stato e il precedente e alle facce tristi della moglie e del figlio. A quel punto si risvegliava, ma proprio sveglio non era, e pensava ai corpi da preparare per la sepoltura. Prevedeva ogni particolare. Sino alla chiusura della cassa. Poi rimaneva a lungo nella condizione desiderabile di chi non è ancora in terra e deve mettere al loro posto le cose, le persone e le ore che la notte si erano fermate intorno al letto. Dopo, si svegliava davvero. Ma la presenza di Alda, tiepida e vicina, non esorcizzava l’idea della morte, di una disgrazia e neppure quella di una piccola colica. La presenza di Alda, questo gli era chiaro, accresceva la paura e allora lui chiudeva di nuovo gli occhi perché il suo ordine non reggeva. Ma l’oscurità obbligata lo angosciava e allora riapriva le palpebre e fissava il profilo di Alda che dormiva felice, a pancia in su. Non aveva più avuto crisi improvvise» (pp. 94-95).
La figura di Alda quale sua salvatrice sembra aver rassicurato Mario. La morte di Cosimo che era divenuto il convivente ufficiale della madre dopo il matrimonio del figlio e un ictus successivo che colpisce la donna, riaprono i conti con la morte. Infine, anche lui subisce repentinamente il colpo di un infarto. Nell’ospedale in cui viene ricoverato, Mario conosce Mariannina, un’infermiera di straordinaria vitalità che si impadronisce di lui e ne diviene l’amante. Di fronte al consolidarsi di questo nuovo rapporto, Alda sembra rimanere inerte e accettare il fatto compiuto (come pure farà la madre ormai invalida e costretta all’uso di bastoni e deambulatori per spostarsi). Ma c’è di più: Mariannina conduce Mario a una riunione del Consiglio di circoscrizione e lo spinge a parlare in pubblico. L’impatto del discorso dell’uomo è straordinario: la sua idea che ciascuno abbia bisogno di Protezione e che l’instaurazione generalizzata di essa, la sua istituzionalizzazione, condurrebbe gli uomini a ridurre le loro paure e le loro angosce conquista gli elettori che lo votano in gran numero. Inoltre, le tesi di Mario attirano l’attenzione dell’Assessore agli Affari Sociali, Guido Langelico, che incarica l’ormai ex-impiegato di creare un apposito Ufficio Protezione in cui ricevere, confortare e curare tutti quelli che hanno paura di ciò che non si può curare o sopperire direttamente. Il successo dell’iniziativa è enorme e Mario riceve perfino l’appoggio del priore del convento più potente della zona (al quale non ha neppure nascosto il suo sostanziale ateismo). L’Ufficio viene sistemato nella zona più remota e meno frequentata di un parco che da sempre aveva rassicurato l’uomo con la sua solitudine popolata solo dalla presenza di qualche airone. I lavori per la sua realizzazione risultano rapidi ed efficienti:
«La direzione aveva due vetrate che facevano passare una luce verdina, qualsiasi tempo facesse fuori e Mario aveva una scrivania di cristallo che galleggiava in mezzo alla stanza. All’ingresso del palazzo c’era una targa color carta da zucchero: IN MANCANZA DI UN DIO / SI PUO’ FARE UNA COSA DIVERSA / CHE CERCARSENE UNO / E CI SI PUO’ CURARE IL DOLORE DA SOLI E sulla parete dietro la sua scrivania aveva fatto scrivere la stessa frase. Mario aveva fatto richiesta che tutto quello che poteva essere colorato fosse color carta da zucchero, e per farsi capire aveva indicato il proprio abito. Poi, quando la costruzione finì, il parallelepipedo azzurrognolo apparve sospeso sulla superficie dello stagno» (p. 214).
Ma a questo punto c’è un’accelerazione nella storia. Dopo un secondo infarto e dopo aver ripreso le sue attività come direttore dell’Ufficio Protezione, le due donne di Mario restano incinte pressoché contemporaneamente (saranno per l’uomo il secondo figlio da Alda e il primo dalla sua donna mogliamante). Eppure, in questo stesso lasso di tempo, l’uomo, ormai solidamente insediato nella sua nuova attività, conosce Giulia, una donna instabile e malata e se ne innamora, suscitando il forte risentimento di Alda. Nonostante diversi tentativi di omicidio nei suoi confronti da parte della donna, Mario continua ad esserne attirato finché per riuscire a staccarsene si decide a ucciderla lui stessa: per amore (come i “veri” amanti descritti nella Ballata del carcere di Reading di Oscar Wilde). Compra un coltello “corrusco” e la fa morire. A questo punto è pronto anche lui per la fine. Le gocce non bastano più:
«Le gocce diventano subito me stesso. Buttare giù una pastigliaè un’azione che chiunque può fare, basta avere la bocca. Le gocce no, le gocce richiedono intelligenza, esperienza, perfino una tattica e tanta sensibilità. Bisogna conoscersi bene, sapere di quanto c’è bisogno e sapere cosa si vuole. Mi sono convinto che il gesto delle gocce sulla lingua e quello del coltello possiedono proprio la stessa armonia. Sono passate due settimane. Un sole incessante, giallognolo come me, un vento umido che ha infradiciato tutto. Guglia, ormai, si sarà ridotta a chissà che cosa. La vorrei vedere. Sono sicuro che è composta, però, e che ha mantenuto l’ordine» (pp. 276-277).
Romanzo grottesco e psicologicamente penetrante, Dieci gocce è il ritratto di una generazione ansiosa e incerta, incapace di scelte radicali, eppure pronta ad una fine assurda e repentina, incapace di vivere senza un sostegno che nessuno le può più (o solo ancora ?) dare come aiuto per vivere.
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* Negli anni tra il 1896 e il 1901 (rispettivamente nel 1896, 1897, 1899 e 1901), Anatole France scrisse quattro brevi volumi narrativi (ma dal taglio saggistico e spesso erudito) che intitolò alla fine Storia contemporanea. In essi, attraverso delle scene di vita privata e pubblica del suo tempo, ricostruì in maniera straordinariamente efficace le vicende politiche, culturali, sociali, religiose e di costume del tempo suo. In particolare, i due ultimi romanzi del ciclo presentano riflessioni importanti e provocatorie su quello che si convenne, fin da subito, definire l’affaireDreyfus. Intitolando Storia contemporanea questa mia breve serie a seguire di recensioni di romanzi contemporanei, vorrei avere l’ambizione di fare lo stesso percorso e di realizzare lo stesso obiettivo di Anatole France utilizzando, però, l’arma a me più adatta della critica letteraria e verificando la qualità della scrittura di alcuni testi narrativi che mi sembrano più significativi, alla fine, per ricomporre un quadro complessivo (anche se, per necessità di cose, mai esaustivo) del presente italiano attraverso le pagine dei suoi scrittori contemporanei. (G.P)