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Storia di Kevin Carter e della fotografia che lo portò al suicidio
Creato il 18 dicembre 2012 da Uskebasi @UskebasiblogQuesta è la storia di chi non ce l'ha fatta, di chi ha sopportato l'orrore fino a quando non gli ha scavato l'anima. La storia di Kevin Carter.Kevin è un giornalista e fotografo sudafricano, nato a Johannesburg il 13 settembre 1960. I suoi primi incarichi sono come fotografo sportivo nel fine settimana, poi passa a lavorare per il Johannesburg Star documentando visivamente la brutalità dell'apartheid. In un paese che stava vivendo cambiamenti epocali e tumulti dopotutto, scattare foto a rugbisti o ai campi di cricket non era per Kevin la più grande ambizione. Insieme ad altri tre giornalisti (Greg Marinovich, Ken Oosterbroek e Joao Silva) diventa membro del cosidetto Bang-Bang Club, un nome affibbiato dalla gente del posto ai quattro giovani perchè, per svolgere al meglio il loro lavoro, si trovavano spesso in mezzo alle sparatorie. Lo scopo è riportare fedelmente attraverso i loro obbiettivi ciò che avviene in questi anni in sudafrica, cercando di far emergere la verità, rischiando la vita per documentare gli orrori della guerra civile.
Kevin è insomma un gionalista impegnato. Testimonia le ingiustizie causate dal razzismo, fotografando i momenti più orrendi del periodo di Governo di F.W. De Klerk, l'ultimo presidente bianco del sudafrica dell'apartheid. Quel De Klerk che negli anni successivi avrebbe prima annunciato la liberazione del leader storico dell'ANC Nelson Mandela dopo 26 anni di detenzione (10 febbraio 1989) poi guidato i negoziati per una fine pacifica del regime e per l'adozione della prima costituzione pienamente democratica del Sudafrica. Ma torniamo a Kevin Carter. Già in questi anni il giovane mostra un animo sensibile e una coscienza che inizia a corrodersi lentamente. Fa il suo lavoro ma, come dice lui stesso "Ero sconvolto vedendo cosa stavano facendo. Ero spaventato per quello che io stavo facendo. Ma poi le persone hanno iniziato a parlare di quelle immagini, così ho pensato che forse le mie azioni non sono state poi così cattive. Essere stato un testimone di qualcosa di così orribile non fu necessariamente un male." Kevin si sente colpevole di ciò che sta accadendo, o più probabilmente di quello che lui non riusce a fare perchè non accada.
Nel 1993 Kevin Carter si sposta in Sudan per rendere il mondo consapevole degli orrori che si stanno perpetrando in quel paese, dove la fame elimina letteralmente buona parte della popolazione e il Governo non riesce a trovare una soluzione più logica che armare il popolo per sfamarlo. Proprio qui il giovane fotografo scatterà la sua fotografia più famosa, quella che lo perseguiterà fino a condurlo al suicidio. Un'immagine che viene pubblicata per la prima volta il 26 marzo 1993 dal New York Times.
C'è una bambina, sei anni circa. Sta scappando alla ricerca di un rifugio. Tisica e gonfia per la denutrizione la piccola si rannicchia al suolo con il volto fra le mani, ormai troppo debole per continuare a lottare. Sullo sfondo un avvoltoio osserva aspettando la morte di quella che diventerà il suo pasto.Una fotografia crudissima, diretta, la cui vista è pesante da sostenere con lo sguardo. Un'immagine simbolo della fame nel mondo. Si dice che Kevin fosse ossessionato da questo scatto. Uno scatto che valse a Carter il premio Pulitzer del 1994.Il fotografo non disse mai cosa fece dopo aver immortalato la scena. Probabilmente non seppe mai quale fu la fine della bambina, probabilmente fu un rimorso inconfessabile a distruggerlo. Anche pochi giorni prima della morte, intervistato, Carter affermò il suo odio per qulla fotografia, e si rifiutò di dire di più sulla vicenda.
Il 27 luglio 1994, a pochi mesi dalla consegna del Pulitzer, Kevin Carter andò vicino ad un parco dove aveva giocato in gioventù e si tolse la vita inalando il monossido di carbonio da un tubo collegato allo scarico dell'auto. Ucciso da un rimorso e dalla consapevolezza di aver distrutto la sua anima per diventare un fedele reporter. Incapace di sopportare quegli orrori che sfogliava quotidianamente nella sua testa come un album fotografico.
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