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Dormivo.
Oppure sognavo di dormire. Era un dilemma che la mia testa cercava di sciogliere ardentemente. Ero in un letto avvolto da coperte leggere che sembravano non bastare a riscaldare la carne appiccicata al tessuto del pigiama. La testa mi scoppiava. Lo sguardo girava e volteggiava per conto suo nella stanza. Era giorno e capii di esser sveglio quando la mia mano toccò la fronte e tornò umida di sudore. Scoprii pian piano, arto dopo arto, che anche tutto il resto era coperto di sudore. Volevo muovermi ma i muscoli non sembravano d’accordo. Mi sentivo inerme come un naufrago da giorni su una zattera, lambito da piccole e fredde onde oceaniche. Presi a fissare un punto di luce solare sul soffitto. Non seppi nemmeno quantificare il tempo che lo fissai. Quando scomparì, decisi che era il momento di alzarmi. Raccolsi le mie ossa e cercai di mettermi in piedi. A stento riuscii a tenere l’equilibrio. Andai in bagno per sciacquarmi la faccia. Ma l’acqua sembrava inefficacie a raffreddare la mia fronte rovente. Tronai in camera e rovistai tra i farmaci per trovare qualcosa che avrebbe alleviato le mie pene. Presi un po’ di tutto cosicché il mio stomaco diventò un cocktails di tachipirina, ketoprofene e antinfiammatori vari. Mi stesi impaziente che il miscuglio producesse il suo effetto e intanto misurai la temperatura con il termometro. 40. Controllai meglio. Sì, la barretta di mercurio aveva toccato proprio una delle ultime tacche. Avrei dovuto chiamare mia madre ma sapevo che a quell’ora era intenta ad infilzare braccia con aghi appuntiti a chilometri e chilometri lontana da me. Dovevo cavarmela da solo. Lei, se fosse stata lì, mi avrebbe appoggiato una pezza umida in fronte e preparato qualcosa di caldo da mangiare. Saltai le tappe e mi buttai di colpo sotto una doccia fredda. Tremavo come una foglia al vento, nudo, in una fredda vasca da bagno. Tremavo così tanto che a un certo punto smisi, come se i muscoli si fossero stancati di protestare contro la mia ostinazione. Chiusi l’acqua e mi asciugai. Mi buttai sul letto e chiusi gli occhi lasciando scorrere la giornata sulla mia testa.
Li riaprii quando sentii qualcuno picchiettare sulla mia fronte.
- Perché non hai risposto al cellulare! –<
Era Francesca. Era venuta a farmi una visita imprevista, preoccupata dalla mia assenza.
- Guarda come sei ridotto! Hai mangiato? –
- No… -
- Vado a prepararti qualcosa… tu non muoverti! –
Girai con fatica la testa dolorante e la guardai scorrere via dalla mia stanza. Sembrava un angelo senza ali. Chi l’aveva chiamata? Era stato il suo sesto senso a portarla qui.
Dopo un po’ senti un forte odore di brodo provenire dalla cucina. La vidi arrivare con un piatto fumante tra le mani.
- Mangia! – m’intimò come le più ostinate infermiere.
Sorrisi prendendo il cucchiaio, sotto il suo occhio severo ma premuroso. Mi tranquillizzai sapendo che c’era qualcuno che si prendeva cura di me. Dopotutto ero cresciuto al fianco di una madre iperprotettiva, ed averla persa nel momento in cui mi trasferii lì, aveva creato un vuoto incolmabile. C’è da aggiungere che all’epoca non avevo un sistema immunitario eccellente e tendevo ad ammalarmi molto spesso. E questa era una delle mie paure, dover combattere i miei mali da solo.
Mentre mangiavo la mano di Francesca si posò sulla mia guancia. Accarezzò la mia ruvida barba contro pelo.
- Sembri proprio un barbone! – esclamò scherzosamente.