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- Pronto… –
- Ragazzo! Dove sei? –
- Ancora in giro papà… –
- Così tardi? –
- Si… dovevo vedere l’ultima casa… –
- Trovata? –
- No… –
- Lo dicevo io, è troppo tardi per cercare. Torna qui… riproverai l’anno prossimo… –
- No papà, io ce la farò… –
Chiusi il cellulare e pensai che mio padre facesse di tutto per ostacolarmi. Ma in realtà non era così. Era il suo affetto e il suo protezionismo a spingere la sua bocca a pronunciare parole che mi demoralizzavano. Voleva farmi desistere da quella scelta, molto avventata per la sua filosofia di pensiero. Non condivideva, ma speravo che credesse in me. Speravo che tutto quello che faceva, fosse solo per mettermi alla prova. Per farmi capire che la vita non è così facile quando sei da solo. Non volevo accettare la sua esperienza, i suoi consigli, perché li consideravo antichi, passati, inadatti a una vita come la mia. Per questo non facevamo altro che scontrarci. Le nostre lingue s’infiammavano a suon di urla che solo mia madre poteva spegnere. Quanto febbrile ardore avevo allora. E adesso? Eccolo lì, il mio morale. Strisciava lungo la strada e finiva in un tombino. Sprofondava in un abisso nero da cui chissà se ne sarebbe più uscito.
Il cielo ormai era buio e la notte densa e penetrante calava sulla città come cioccolata su una torta. Camminavo lentamente tra le strade. Cercavo e spulciavo ogni palo, cartello, portone. Alla ricerca di un maledetto annuncio, di un numero, da scrivere sul mio deserto foglietto bianco.
Forse aveva ragione mio padre. Era troppo tardi. Non sarei riuscito a trovare un bel niente. Ottobre era già incominciato da un pezzo e con lui anche i corsi dell’università. Tutto sembrava muoversi più velocemente di me. Persino la notte sembrava sbucata all’improvviso. Tutto mi sembrava così uguale che mi persi tra le strade di una città che credevo di conoscere.
“Dove cavolo è il mio albergo?” pensai con rabbia.
Era tempo di chiudere quel giorno, di mangiare qualcosa e magari dormire. Sempre che avessi trovato il mio albergo. Per ironia della sorte, un’altra ricerca s’era aggiunta alle tante. Mi sedetti sul bordo di un marciapiede per smaltire la mia risata isterica; per cercare di stoppare i pensieri. Ma un vuoto non si ferma. Mi ero illuso. Avevo mirato troppo in alto e ora ne pagavo le conseguenze. Dovevo rinunciare. Dovevo andar via. Non potevo restare altro tempo in albergo. Guardai le mie mani. Erano piene di voglia, ma stroncate dalla realtà. Avevo i muscoli in fermento che dovevo calmare.
Una lacrima si fece sentire sulla mia pelle ruvida. Di fronte al sogno che vacillava, vacillavo anch’io. S’era aggiunta anche la collera alla lista dei sentimenti, producendo i suoi nefasti effetti.
Gli occhi bassi guardavano l’asfalto grigio. Lentamente cercavo di farli risalire. Volevo riconquistare almeno il mio orgoglio. Mattonella dopo mattonella, percorrevo il profilo del palazzo di fronte fino a una scritta che m’illuminò. “Desiderio” Sorrisi e asciugai le lacrime, anche se sapevo che una semplice scritta non poteva risolvere le cose. Misi le mani in tasca pensando alla valigia da preparare l’indomani. Tentai di scaldarle chiudendole a pugno, ma qualcosa mi solleticava la mano destra. Un bigliettino. Lo tirai fuori e lo lessi.
“Forse non è detta l’ultima parola… “ pensai.