Intervista a Francesco Barilli, il mediattivista che vuole cambiare il mondo con la parola.
Fare uscire la storia dallo stretto ambito dell’ “Accademia”, farle recuperare il suo ruolo di scienza sociale e aprire discussioni che, parlando del passato, ci permettano di capire il presente e gettarci nella mischia del dibattito contemporaneo. Questo far “scendere in piazza” la Storia è un po’ la vocazione del Caso S. Esigenza che fortunatamente condividiamo con tanti possibili compagni di strada.
Approfittando della recente uscita di Non è di maggio (scheda), primo volume della serie dedicata alla strage fascista di Piazza della Loggia, abbiamo deciso di scambiare due chiacchiere con Francesco “Baro” Barilli, sceneggiatore, mediattivista[1] , scrittore e storico, da anni attento al problema della memoria in Italia e del suo rapporto con i media. Animatore del sito Reti Invisibili, autore assieme a Sergio Sinigaglia de La Piuma e la montagna. Storie dagli anni ‘70, libro di interviste a familiari e amici di vittime della repressione e dello squadrismo nero, Francesco è anche coautore di una serie di fumetti, editi da BeccoGiallo (Piazza fontana, 2009; Carlo Giuliani, il ribelle di Genova, 2011; Piazza della Loggia. Volume 1: Non è di Maggio, 2012), in cui si parla di importanti nodi della recente storia italiana.
Reti Invisibili, La Piuma e la Montagna, i racconti su La Rossa Primavera… ora i fumetti. Nell’arco degli anni il tuo interesse, o meglio la tua battaglia, per la memoria è rimasta costante e ti sei servito di media differenti. Dove nasce la tua volontà di raccogliere queste storie e cercare di dar loro un nuovo e più ampio respiro, magari utilizzando anche degli strumenti comunicativi più vicini alle nuove generazioni, che da quel passato sembrano così lontane?
Come scrittore e mediattivista il fatto che nella mia vita ha creato “un prima e un dopo” è stato il G8 genovese del luglio 2001. Poco dopo quei giorni fu un mio caro amico a chiedermi di scrivere per Ecomancina, sito internet di informazione alternativa da lui creato. Scrivere sul web, in quel momento, per certi versi era pionieristico: ci si stava addentrando in un terreno ancora tutto (o molto) da scoprire . Per me, poi – nel 2001 avevo 35 anni – scrivere sul web era un’esigenza più che una possibilità: si trattava di recuperare, dopo un periodo di “ritiro nel privato”, la possibilità di “fare qualcosa”, anche solo a livello di denuncia civile, tornando a sentire che nessuno può ritenersi escluso dalle responsabilità dell’agire concreto. Così è nata la mia amicizia con Haidi Giuliani, madre di Carlo, e conseguentemente la volontà di assisterla nella sua idea di un sito internet che raccogliesse al suo interno la storia di suo figlio, di “quelli di Genova”, di quelli venuti prima e, purtroppo, dopo. Quel sito lo coordino tuttora: Reti Invisibili. Ciò che ne è seguito, i lavori che citavi nella domanda, è la conseguenza logica del percorso nato proprio a Genova.
Il tassista Cornelio Rolandi inzialmente riconobbe in Pietro Valpreda l’uomo che avrebbe posato la bomba alla Banca dell’Agricoltura. Piazza Fontana (Barilli-Fenoglio, Becco Giallo, 2009, particolare).
Passando agli strumenti, confesso di non aver mai riflettuto a fondo sul perché ho scelto, di volta in volta, il web, il racconto, l’articolo di approfondimento, l’intervista, il fumetto… Credo che, in fondo, ognuno di noi è figlio del proprio tempo: se una volta l’informazione alternativa la si faceva col ciclostile o con le radio libere, oggi gli strumenti sono quelli che i tempi offrono. Devo infine confessare di essere stato sempre attratto da tutte le forme espressive-narrative. Fin da giovanissimo ero incuriosito, da lettore, dalla tecnica utilizzata da ogni scrittore che stavo leggendo in quel momento (si trattasse di romanzi, racconti, fumetti, cinema o altro). Davanti a un libro che “mi prendeva” particolarmente, tanto per fare un esempio, non ero il classico divoratore di pagine ma, al contrario, mi fermavo davanti ai passaggi che più mi colpivano, ripercorrendoli a ritroso per capire cosa e come, in quel racconto, mi avesse colpito. A volte addirittura mi domandavo se quel dato passaggio non lo si potesse scrivere/raccontare diversamente e ancora più efficacemente… Ecco: forse proprio questa curiosità ha fatto sì che io, da scrittore, non mi sia fermato a un solo strumento comunicativo, ma abbia cercato di sperimentarne diversi.
Al fumetto, infatti, sei arrivato dopo aver percorso strade differenti. Come sei approdato alle “nuvole parlanti” e in che maniera la tua ricerca storica e giornalistica si è adattata a questo linguaggio? Hai avuto dei lavori e degli autori che ti son stati di riferimento?
Anche il mio approdo alle “nuvole parlanti” è stato influenzato da mie esperienze sul web. E, in parte, da qualche fortunata casualità.
Lettore di fumetti lo sono da sempre. Alla fine dei ’90 cominciarono ad apparire in internet i primi forum di discussione sui comics: una bella esperienza, si potevano scambiare opinioni in libertà sui fumetti (quelli letti in passato e quelli nuovi). È in questo ambito che fui avvicinato da Marco Rizzo. Lui stava lavorando sul suo romanzo grafico su Ilaria Alpi, mi conosceva come coordinatore di Reti Invisibili, sapeva che avevo intervistato i genitori di Ilaria e mi chiese di occuparmi dei redazionali. Da qui la mia conoscenza con Guido Ostanel e Federico Zaghis del BeccoGiallo, che negli anni seguenti mi affidarono la cura di altri apparati redazionali. Credo che Guido e Federico abbiano visto nei miei scritti un certo “piglio narrativo”, e nel dicembre 2008 mi chiesero se me la sentivo di cimentarmi in una sceneggiatura vera e propria: quella di Piazza Fontana, per il quarantennale che sarebbe caduto l’anno dopo.
Per fartela breve: le collaborazioni sui redazionali avevano stabilito fra me e l’editore un rapporto oltre il professionale, fatto di stima e fiducia reciproche. Ma penso che da parte loro l’idea di affidarmi Piazza Fontana sia stata una “scommessa al buio”, un azzardo che spero di aver ripagato.
Per quanto riguarda autori che siano stati miei punti di riferimento: direi, paradossalmente, che all’inizio non ne ho avuti; ho cercato di costruire un mio personale modo di “raccontare a fumetti”, al limite debitore delle mie esperienze in Ecomancina e Reti Invisibili: così come nei siti internet avevo spesso intervistato i diretti interessati delle vicende che raccontavo, anche i miei libri contengono ampi brani di interviste. Nell’ultimo lavoro, quello su Piazza Loggia, quelle interviste sono ancora più presenti, ma stavolta con la presenza diretta “sul campo” mia e di Matteo Fenoglio (disegnatore e coautore del libro): non nascondo che in questa scelta l’influenza di Joe Sacco sia stata fondamentale.
Parlare di Storia tramite fumetti non è un fatto scontato: la storia presentata deve essere completa nella ricostruzione, rendendo il prodotto editoriale valido come testo di approfondimento. Al tempo stesso deve essere leggibile abbastanza per non trasformare la tavola in una didascalia semplicemente “accompagnata” dai disegni. Come sei riuscito a sintetizzare le due esigenze?
Giuliano Giuliani, padre di Carlo, narra in mezzo al nastro di scotch, uno degli elementi narrativi proposti dagli autore per raccontare i fatti di Genova 2001; Carlo Giuliani, il ribelle di Genova (Barilli-De Carli, Becco Giallo, 2011).
Fino ad oggi nelle mie esperienze di sceneggiatore sono stato fortunato. Ho lavorato con due soli disegnatori (Matteo su Piazza Fontana e Piazza della Loggia; Manuel De Carli per Carlo Giuliani): con entrambi condivido non solo l’idea di fumetto come “impegno civile”, ma anche qualcosa che non riesco a descrivere se non come “visione del mondo e della vita”. Sono due professionisti validissimi dal punto di vista tecnico, ma sono anche attentissimi al merito delle vicende, sempre estremamente propositivi. E sono diventati ottimi amici: i mesi di lavoro che ho passato con loro sono stati una bella esperienza (creativa, ma anche “di vita”) per il continuo confronto cui abbiamo sottoposto le nostre idee, riuscendo sempre a trovare non solo una sintesi, ma una soluzione che quelle idee le sapesse valorizzare meglio di quanto il singolo ideatore (di volta in volta io o loro, nei rispettivi volumi) avesse proposto.
Come accennavo prima, io non nasco come scrittore puro di fumetti; è un limite tecnico che mi riconosco: per sceneggiare un fumetto ho bisogno di disegnatori con cui condividere il processo creativo, forti nello storytelling, capaci di dare forma alle mie idee anche quando sono semplici “suggestioni”. Con Matteo e Manuel è stato così.
Come sceneggiatore hai oramai alle spalle tre lavori e quattro come editor per la BeccoGiallo. La maniera di raccontare e la struttura che hai dato ai tuoi lavori non è sicuramente la stessa e in un certo senso si avverte un cambiamento fra un testo e l’altro: qual è stato il tuo percorso come scrittore e in che maniera hai sviluppato la tecnica del racconto a fumetti per narrare meglio le tue ricerche?
La mia risposta ha un limite oggettivo: le esperienze maturate fin qui non mi rendono “un esperto della sceneggiatura a fumetti”; al limite danno alla mia voce una minima “autorevolezza” in quella nicchia di narrativa che è il fumetto storico. Intendo dire che non sono un giornalista, ma oggettivamente i lavori che ho fatto fin qui (non solo nei fumetti) sono di taglio giornalistico. Non ti nascondo che mi piacerebbe lavorare su qualche progetto di fantasia, su una trama totalmente slegata a fatti storici e, a quel punto, dovrei cercare altre soluzioni narrative.
Per il momento le tre grandi direttrici da cui partono le mie sceneggiature sono: gli atti processuali e il materiale giornalistico presente sui fatti. L’esigenza di conoscere bene ciò che si intende narrare è fondamentale. Questo richiede un grosso impegno: è chiaro che sto parlando di materiali molto corposi, assai difficili da utilizzare (si deve mediare l’esigenza del sintetizzarli con quella di restare fedeli a dichiarazioni originali e con quella di renderli narrativamente validi). Poi c’è la voglia di dare voce ai familiari delle vittime. Se noti, questa è una caratteristica di tutti i miei lavori: Franca Dendena e Licia Pinelli in Piazza Fontana, i genitori e la sorella in Carlo Giuliani, Manlio Milani in Piazza della Loggia. E contemporaneamente (l’accennavo prima), c’è la ricerca di proporre i brani di intervista in modi diversi e adatti al taglio che ho voluto dare al racconto: rigoroso e descrittivo (Piazza Fontana), corale e partecipato (Piazza Loggia), lirico ed evocativo (Carlo Giuliani). Infine, evitare di ammantare queste vicende con un velo da “mistero italiano”: in ogni vicenda affrontata ho preferito raccontare cosa “si sa” davvero (anche se spesso occultato dai media) piuttosto che trasformare quelle storie in “gialli irrisolti”. Penso sia più utile, specie per i giovani, raccontare loro quanto è stato accertato piuttosto che il cono d’ombra che grava su quelle vicende. Già troppi, in buona o mala fede, giocano con quel cono d’ombra per poter dire “non sapremo mai la verità”. Invece di quei fatti non si conosce tutto, ma molto sì: raccontiamolo, dunque…
Una tavola “nera” di Piazza della Loggia. 1 – Non è di Maggio (Barilli-Fenoglio, Becco Giallo, 2012).
Soffermiamoci sui lavori dedicati alla “madre delle stragi” e alla bomba di Brescia. Entrambi difatti alternano dialoghi nel presente (pagine bianche) e flashback o ricostruzione dei fatti (pagine nere). Piazza Fontana è più legata ad una volontà direi quasi didattica, mentre il fumetto di quest’anno ha una narrazione più sciolta, maggiormente affidata alle parole dei personaggi delle pagine bianche (Manlio Milani dell’associazione delle vittime o lo storico Aldo Gianuli per non fare che due esempi). La sintesi fra ricerca/ricostruzione per bocca di un personaggio e la didascalia di commento è una costante dei fumetti a carattere storico o d’inchiesta. Pensi che ci possa essere una via per uscire da questo schema, magari sperimentando forme narrative più da romanzo e più “realistiche e verosimili che reali”?
Giustamente vedi differenze fra Piazza Fontana e Piazza Loggia. In realtà direi che la diversità fondamentale sta nell’approccio. Per la strage di Milano io e Matteo abbiamo voluto “ritagliare” il fatto dal suo contesto, come a voler far risaltare l’atrocità del giorno in cui l’Italia si è scoperta indifesa davanti a una violenza che non pensava di dover affrontare. La strage di Brescia (non a caso definita quella “a più alto tasso di politicità”, essendo stata perpetrata durante una manifestazione indetta dai sindacati e dal comitato unitario antifascista bresciano) abbiamo invece voluta inserirla in un affresco più ampio, parlando del quinquennio nero 1969-1974. Se Piazza Fontana è la prima pagina di quel periodo, Piazza Loggia (assieme all’Italicus) ne è l’epilogo: tutto questo ci ha portato a una narrazione più corale, a una lavorazione più corposa; tant’è vero che quello appena uscito è il primo di due volumi dedicati alla strage di Brescia: in questo abbiamo affrontato i fatti fino alla strage del 28 maggio 1974, il prossimo (uscirà nel 2013) sarà imperniato sulle vicende processuali. Peraltro, in Piazza Fontana io e Matteo abbiamo utilizzato, come espediente narrativo, ampi brani di Patmos (poesia scritta da Pasolini immediatamente dopo la strage): una scelta del genere ti porta inevitabilmente su terreni più evocativi, rispetto all’approccio rigorosamente storico di Piazza Loggia. Poi, certo, si potrebbero sperimentare altre forme, inserire elementi di fiction, personaggi immaginari… Tutte cose, intendiamoci, legittime, se ben utilizzate. Altri l’hanno fatto e non è escluso che pure io possa provarci. Come ti dicevo, al momento l’approccio che mi viene più naturale è quello giornalistico, per mie esperienze passate. In futuro, vedremo.
Il fumetto storico si può collocare nella più ampia panoramica del fumetto di realtà, che sembra oggi particolarmente fortunato, tanto da divenire quasi un genere autonomo e godere di un riconoscimento “pubblico” perfino maggiore del fumetto tradizionale. Pensi che questa sia una buona strada per l’emancipazione del fumetto in generale (considerato un media di “serie b”) o che si stia creando un’altra nicchia di lettori, a metà fra gli appassionati del fumetto e i curiosi di storia?
Il fumetto è, per me, una forma espressiva pienamente degna (se non sbaglio era De André a dire che non esistono forme artistiche maggiori e minori, ma al limite artisti – e, aggiungo io, opere – maggiori e minori). Fermo restando questo, sul quesito che mi poni sono, purtroppo, pessimista: credo che l’ipotesi più corretta sia l’ultima, e che si stia quindi creando un bacino di lettori “ad hoc”. Basti pensare al fatto che, nonostante quel che pensano in molti, il “lettore tipo” di fumetti del genere non è il giovane che, già appassionato ai fumetti, si avvicina alle tematiche che affronto io ma, come dicevi tu, la persona che già, dentro di sé, ha ben presenti le due passioni (il fumetto e la storia). Significativo, in questo senso, è anche il fatto che i fumetti di BeccoGiallo siano presenti più nelle librerie di varia che non nelle fumetterie: sembra che il “lettore tipo” di questo tipo di fumetti non coincida con il “fruitore tipo” di una fumetteria.
Poi il discorso è molto più complesso: è probabile che il fumetto, e in generale le forme “puramente narrative”, costituiscano per i giovani mezzi più stimolanti della saggistica, che con la sua verbosità scoraggia l’approccio alla lettura. Quindi è probabile che qualche giovane si sia avvicinato a Piazza Fontana o a Piazza della Loggia proprio grazie ai miei fumetti, senza avere alle spalle null’altro (come bagaglio pregresso di conoscenze sui due argomenti. Di questo sono molto contento, ma non cambia – a livello di “grandi numeri” – la mia valutazione.
La questione della “memoria” negli ultimi anni sembra essere di nuovo uno dei punti caldi del dibattito pubblico e politico italiano. L’utilizzo di strumenti di comunicazione basati in gran parte sull’immagine più che sulla lettura (oltre al fumetto, il teatro di narrazione, il cinema, il documentario), di fruizione più rapida ed indubbiamente di maggiore successo, permette una consapevolezza più profonda e ampia del passato o presenta delle controindicazioni?
Fortunato Zinni, impiegato della Banca dell’Agricoltura e sopravvissuto alla strage, racconta la “sua” bomba; Piazza Fontana (Barilli-Fenoglio, Becco Giallo, 2009).
Questa è una domanda bella e “difficile”, nel senso che una risposta completa dovrebbe affrontare anche la natura e i rispettivi limiti di ogni forma espressiva giustamente citata (cinema, teatro eccetera) ma pure lo stato della cultura e dell’informazione in Italia. E dovrebbe confrontarsi pure col fatto che queste narrazioni si innestano in un panorama molto particolare: le vicende di cui parliamo sono state affrontate da molti autori e in molti modi, ma soprattutto sono state oggetto di diversi procedimenti penali (quasi tutti irrisolti, in toto o in parte) che hanno provocato polemiche, scontri e utilizzi strumentali tra fazioni contrapposte, ferite ancora aperte nella società e nei familiari delle vittime. Insomma, un quadro molto complesso: affrontarlo tutto, e bene, ci porterebbe via giorni, più che ore…
Però, fermandomi al succo della tua domanda: no, non credo che “la moda” (consentimi l’orribile definizione) del “raccontare narrativamente” la storia abbia delle controindicazioni, rispetto al saggio storico tradizionalmente inteso (che, sia chiaro, continua e continuerà ad avere un’importanza fondamentale). A pensarci bene la mia constatazione non si basa solo sull’oggi. Prima dell’ottimo La notte che Pinelli di Adriano Sofri (Sellerio, 2009) il lavoro maggiormente significativo sul caso Pinelli era Morte accidentale di un anarchico di Dario Fo: una pièce teatrale. Questo è solo un esempio, ma potrei farne molti altri, da ieri a oggi di casi in cui sono stati lavori artistici (libri, teatro, cinema, canzone d’autore…) a sviluppare dibattito nella società, mentre politica e magistratura (che dovrebbero dare risposte ben più importanti) latitavano e latitano.
No, non credo esistano “controindicazioni”. Semplicemente è molto triste pensare che questi racconti si inseriscono nel vuoto che le istituzioni, colpevolmente, hanno creato nella società italiana, a livello di consapevolezza collettiva. L’arte non potrà mai colmare quel vuoto. Anche se a volte sembra glielo si chieda.
Note (↵ returns to text)- «Un mediattivista è prima di tutto un attivista che usa i suoi strumenti, i media, per fare azione politica, come altri usano striscioni, megafoni etc.», da Vademecum del Mediattivista, a cura di Indymedia Roma↵
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