Mostrocci un’ombra da l’un canto sola,
dicendo: “Colui fesse in grembo a Dio
lo cor che ’n su Tamisi ancor si cola”.
Prendi il XII canto dell’Inferno dantesco, estrapoli una terzina domandandoti chi sia il personaggio descritto e finisci invischiato in una storia che profuma fortemente di Trono di Spade… Uhm, andiamo con ordine.
È il 1265, e i Montfort, casata equiparabile a quella dei Bolton di Martin-iana memoria, sono coinvolti nella cosiddetta “Guerra dei baroni”. Si sono ribellati a Enrico III d’Inghilterra – con cui peraltro sono pure imparentati in una sorta di Dinasty dell’epoca – e sono schierati con le truppe a loro fedeli a Evesham, pronti alla battaglia. Tra di essi spicca Guido di Montfort, combattente valoroso la cui biografia – come vedremo – meriterebbe un romanzo.
Il blasone dei Montfort – (c) Henrysalome per Wikipedia Commons
La Fortuna non arride ai ribelli: il padre e il fratello maggiore di Guido vengono uccisi, i loro corpi vengono trascinati nel fango e smembrati in quelle gratuite manifestazioni di violenza che spesso contraddistinguono i campi di battagli (ahinoi, non solo medievali). Lo stesso Guido viene ferito e fatto prigioniero.
Lo smembramento dei cadaveri in un codice trecentesco
Possiamo immaginarlo rinchiuso nel Castello di Windsor meditare sulla possibile vendetta. Più o meno come il nanetto ad Approdo del Re, nella primavera del 1266 riesce a corrompere le guardie e – attraversata la Manica – a riparare in Francia, dove ritrova un fratello minore. Con lui comincia a muoversi in tutta l’Europa mettendo a disposizione dei francofoni le sue capacità militari.
Dopo cinque anni di vagabondaggi belligeranti e un matrimonio con una nobildonna maremmana, Guido ha l’occasione di vendicare i suoi cari. Viene infatti a sapere che Enrico di Cornovaglia si trovava a Viterbo. Enrico, uomo mite e pacifico, ha un albero genealogico particolare: è cugino sia di Enrico III – il re contro cui avevano combattuto i Monfort – che dello stesso Simone V di Montfort, ucciso e fatto a pezzettini in quella battaglia. In estrema sintesi, un vero casino: come essere contemporaneamente cugini di George Bush e Saddam Hussein. Agli occhi di Guido è un miserabile traditore: si era infatti schierato con i realisti.
In un amen i due fratelli in esilio si precipitano a Viterbo, irrompono nella chiesa di San Silvestro durante la Messa, si scagliano su Enrico e lo trafiggono mentre, aggrappato all’altare, l’uomo implora pietà. Per non farsi mancare niente fanno anche due vittime innocenti – i due chierici che assistevano il celebrante – e, mi spingo a immaginare, escono bestemmiando e scatarrando orrendamente.
La chiesa di San Silvestro a Viterbo
La storia fece una gran impressione e fu tramandata nei decenni successivi. Uno che ammazza un parente durante una Messa e ai piedi dell’altare (“in grembo a Dio”) non può che essere scaraventato da Dante all’Inferno, e infatti lo ritroviamo nel primo girone del settimo cerchio in compagnia di altri “Violenti contro il prossimo”: Ezzelino III (“E quella fronte c’ha ‘l pelo così nero, e’ Azzolino”), feroce tiranno ghibellino nella Marca Trevigiana, Pirro (rappresentato da Virgilio mentre infieriva contro Priamo e i troiani sconfitti), Rinier “Il Pazzo” per il quale bastano il soprannome e un curriculum che include l’omicidio di un vescovo. Una bella compagnia immersa, più o meno profondamente, in un fiume di sangue in un contrappasso piuttosto immediato da codificare.
Alfonso d’Agostino