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Storie di gatti: Napoleone, Vlenia e Crilù

Creato il 19 dicembre 2014 da Berenice @beneagnese
Storie di gatti: Napoleone, Vlenia e CrilùStorie di gatti che non avevano un profilo social.

Il paese era di una bellezza antica, verticale. Edifici di pietra, stradine e scale, portoni di legno, fiori e vasi di erbette sui davanzali. Gli usci delle abitazioni erano allineati al piano di sopra mentre di sotto si aprivano i portoni delle cantine.

Ogni famiglia possedeva un gatto per custodire i piani bassi dove si conservavano i tesori alimentari di casa: cacio, salumi, prosciutti appesi alle travi, pacche di grasso di maiale.

Il ruolo dei mici nel paese era importante, toccava a loro difendere i sotterranei dagli assalti di branchi di topi attratti dal miscuglio di odori.

Scendendo dalla contrada di san Giovanni a quella di santa Maria l'anagrafe cantinesca e felina di Vallo era piuttosto lunga. In cima alla lista c'era il gatto di don Francesco, un tipo magrotto come il suo padrone, striato sul grigio. La cantina si trovava poco distante da casa e come le altre aveva sulla porta una piccola finestra quadrata, la gattaiola, per far entrare e uscire il micio all'occorrenza.

Vlenia, invece, era la gatta di Enia, dal pelo morbido e dalle forme asciutte. Il nome glielo aveva trovato Maria Grazia leggendo il Radio Corriere tv. Poiché ad Al Bano e Romina Power era nata la primogenita Ylenia, aveva pensato che quel nome scelto da una coppia V.I.P. ben si sarebbe adattato all'eleganza della gatta di sua nonna, ma poi per una scarsa conoscenza delle lettere straniere la 'Ipsilon' nella pronuncia era diventata una 'Vu' e la micia, inconsapevole, se ne era andata in giro per anni con un nome storpiato seppur originale.

Poco più giù, scendendo le scalette, c'era Chigi il gatto nero di Loreta. Un maschio dagli occhi rossi e dal pelo liscio di colore notte fonda. Era l'unico in paese ad avere quel mantello perchè l'opinione diffusa rifuggiva i gatti neri, discendenti diretti delle streghe e dei diavoli con gli occhi di brace. Sul far della sera la padrona richiamava Chigi a casa con un lungo, prolungato allettamento: auuuh, auuuh! Il gatto rispondeva arrivando di corsa, pronto a consumare gli avanzi della cena sotto il grande tavolo di quercia della cucina.

Anche mia sorella aveva posseduto un micino dal musetto simpatico. Era stato un regalo della nostra vicina Lucia. Lo allattavamo con una tettarella avvitata alla bottiglietta del succo di frutta. Il gattino gradiva gli schizzetti di latte che scolavano ai lati della bocca bagnando la peluria laterale, e noi lo prendevamo in braccio contandogli le esili ossa sotto la pelle e godendo di quel confortevole calore emanato dal corpicino. Imparavano a prenderci cura di un essere vivente, ad ascoltare il battiti del cuore, e ricevevamo in cambio affetto e fusa continue. In verità anche parecchi graffi distribuiti con gli artigli affilati, che il micio temperava sulle zampe del tavolo della cucina e sul tronco di cachi che avevamo nell'orto.

Storie di gatti: Napoleone, Vlenia e Crilù

(Portone di cantina con gattaiola)

A casa nostra, dove fino a quel momento avevano prevalso i cani, l'ingresso del gattino segnò l'inizio di una dinastia felina durata per più di quarant'anni e divisa nei rami di gatti domestici e gatti di campagna che mia madre teneva nelle stalle fuori dal paese. Incroci continui davano vita a esemplari soriani di vario aspetto e colore: occhi verdi, azzurri, mantelli rossicci, bianchi, pezzati, con una stellina in fronte, tigrati, grigio perla, marroncini, tutti conviventi felicemente con i vari Fido, Finzi, Ebride, Moretta, Tippe, Chicca e Piccolina. Anche i nomi dei gatti si avvicendavano con fantasia al pari di quelli dei cani: Stellina, la Micia, Crilù, Smeraldino, Gastone, tanto per fare qualche esempio. Quant'era grosso Gastone e che pigro! Ebbe un'unica scossa di energia quando leccò tutto il dolce che avevo messo a raffreddare sul davanzale della finestra. Era una cena importante dove il dessert non sarebbe dovuto mancare, ma quando aprii gli scuri per portarlo a tavola ebbi l'amara sorpresa.

Non che i micini nascosti sotto la catasta di legna da ardere ci avessero riservato meno pasticci. I miei bambini li acchiappavano felici passandoli di mano in mano, morbidi e coccolosi com'erano. Ci accorgemmo solo dopo qualche giorno delle piccole chiazze grigio-rosa spuntate sulla pelle. Il pediatra disse che era tigna e che andava eliminata con una stretta terapia di pastiglie, creme e disinfettanti. L'avevano presa dai mici che l'avevano beccata chissà dove.

Sì, la vita del mio paese ruotò in diverse occasioni intorno all'esistenza dei gatti.

Quella volta che Riccardo aveva pensato di soffocare la cucciolata non voluta sotto il letame della concimaia, noi che eravamo ragazzi ci sentimmo quasi degli eroi. Non ricordo chi si accorse dei movimenti sospetti fatti sotto il campo di bocce, ma arrivammo in tempo. Con un forcone e tanta attenzione salimmo sul cumulo e piano piano riuscimmo a liberare i micetti.

La vita dei gatti non era sempre facile. Nella stagione degli accoppiamenti i maschi erano soliti lanciare richiami vocali, simili a un pianto di neonato. Sfortunatamente in paese il canto amoroso era considerato latore di disgrazie e quando la melodia si alzava potente nel cuore della notte, era seguita inevitabilmente da imperanti Frusta via e da poderosi lanci di acqua, se non di pietre. Ma i gatti hanno sette vite e non accadde mai che uno soccombesse per tali motivi. Se non quando zia Annunziata, malata di Alzheimer, fu portata a Roma e lì lanciò dal terrazzo del quinto piano il vecchio e amatissimo Dudù, credendo di averlo sistemato nella cesta.

Tenuti in casa come strumenti di caccia i mici dovevano attenersi all'alimentazione rappresentata dai topi catturati, da lucertole e piccoli uccelli, integrata talvolta dai pochi resti della cucina, dove peraltro non si largheggiava con le vivande. Per questo ogni tanto si sentiva qualche urlo e si vedeva armeggiare un manico di scopa. Guai a lasciare una credenza aperta o qualcosa di commestibile su un tavolo, nessun gatto avrebbe resistito. Anche ponendo i cibi in alto qualsiasi micio avrebbe trovato il modo di arrampicarsi. Proprio come accadde a Cristina che aveva lasciato il lardo sul tavolo e il gatto di cui non ricordo il nome glielo portò via. La donna per rincorrerlo uscì come una furia dalla porta dandogli del mascalzone ma, grazie a quel furto, stanò invece il marito che, spaventato dalle invettive che credeva rivolte a lui, confessò la tresca intessuta con una procace giovanotta.

E per non uscire dal tema del cibo, ecco infine il ritratto di Napoleone, gatto rosso a righe bianche, paccioccone dall'incedere lento. I fatti risalgono a poco tempo fa. L'Imperatore trascorreva la maggior parte del suo tempo a pancia all'aria ed era divenuto così greve che quasi non si muoveva più. Per questo i suoi padroncini decisero di rivolgersi al veterinario. Continuava a ingrassare nonostante seguisse una dieta ferrea e controllata, un fatto inspiegabile. Forse causato da una disfunzione ormonale.

Ma la spiegazione non tardò a venire e fu il piccolo Alessandro a sciogliere il dilemma. Gli bastò guardare verso l'alto, di fronte a casa sua. Lì abitava Mimmetta, che nella vita non aveva avuto figli, ma possedeva ancora tante premure da distribuire.

Cucinava bene e ogni sera di nascosto dedicava le sue attenzioni a Napoleone, preparando per lui polpette e bocconi vari. Sarebbe stato un peccato dire di no a tanta profusione d'amore e il miciotto, pur contravvenendo alle cure mediche, non poteva far altro che garbatamente gradire e ringraziare con un composto miagolìo di approvazione.

(Colpiti al cuore 3, Protezione Micio onlus - Torino 2014 www.protezionemicio.it)
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