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Storie di paese. 23

Creato il 22 dicembre 2012 da Salvatore Ruggiero @sally57
Mio Nonno Salvatore, Nonnù Salvatore, come lo chiamavamo in famiglia, aveva cominciato la sua avventura commerciale vendendo stracci e un mucchio di altre cose: praticamente tutto quello che poteva essere comprato e venduto, legalmente e, certe volte, con il contributo degli amici napoletani, pieni di risorse, anche illegalmente.
La sua passione, a un certo punto della sua sfolgorante carriera di piccolo commerciante, e il suo core business, si direbbe oggi, erano diventati gli orologi svizzeri, che ai suoi tempi, anni '60, praticamente c'erano solo quelli, insieme all'oreficeria.
Quasi subito si era reso conto che un tale commercio non si poteva fare da ambulante, ma richiedeva una sede fissa.
I primi tempi, mentre faceva conoscere la sua nuova attività ai suoi compaesani, accoglieva i clienti a casa nostra, con grande soddisfazione di mia madre che, oltre a fare la commessa, senza retribuzione, doveva far trovare sempre in ordine e pulita la sala dove mio nonno li faceva accomodare e poi servire il caffè quando gli affari si erano chiusi con soddisfazione di entrambe le parti.
Senza considerare che alcuni non venivano a casa col vestito della festa, ma magari nell'intervallo del lavoro in cantiere o nei campi, e mia madre, quasi sempre, doveva spolverare, scopare e lavare per terra dove erano passati coi loro scarponi da fatica.
Dopo i reiterati ma fondati rimbrotti di mia madre, mio nonno, suo malgrado, fu costretto a cercarsi un localino da affittare al centro.
Trovò una stanzetta decente che dava sulla piazzetta del rione Gelso, proprio dietro la piazza, a due passi dalla Chiesa di S.Margherita: ottima collocazione, centrale, facilmente raggiungibile, ma riservata.
I clienti avrebbero raggiunto il negozio facilmente, magari all'uscita della messa domenicale e avrebbero fatto le loro piccole spese al riparo da occhi troppo indiscreti.
Mio nonno aveva messo una bella insegna: Tutto per tutti, una vetrinetta con qualche orologio meccanico a carica manuale e qualche piccolo gioiello.
La domenica mattina, a casa mi svegliavano presto, per aitarlo a portare le valige coi preziosi fino al negozio e fargli da scorta, ma tanto sapevamo che nessuno dei nostri pacifici concittadini ci avrebbe mai rapinati.
Qualche timore poteva, invece, provenire da qualche delinquentello dei paesi vicini.
In ogni caso la prudenza non era mai troppa: occhi ben aperti durante il breve tragitto e sempre pronti a darsela a gambe col malloppo ben stretto.
Arrivati, sani e salvi, a destinazione, alzavamo la sarcinesca, aprivamo la porta e allestivamo la piccola vetrina.
Pronti, per aspettare clienti da servire.
Alla fine della giornata, di solito un'oretta abbondante dopo la fine della messa, quando la piazza si era svuotata e le casse del nonno si erano riempite, facevamo il percorso contrario, scortati anche da mio padre che, intanto, ci aveva raggiunti, a metà mattinata.
Sfilando lungo Viale della Libertà per raggiungere al n.10 casa nostra facevamo sosta al Bar di Zio Fiore per comprare un vassoietto di paste che lui faceva arrivare da Vezza, la più famosa pasticceria di Formia, solo la domenica e le altre feste comandate.
Ad essere onesto devo anche dire che mio nonno Salvatore, pur non essendo per sua natura molto prodigo, anzi era un po tirchio, riconosceva il mio impegno e ripagava volentieri il mio aiuto, elargendomi qualche moneta, che io investivo subito mettendola nel bigliardino o nei primi flipper elettrici arrivati in paese.
Tanto il gelato me lo comprava papà e le paste me le pagava nonnù.
Dopo un po di questo tran-tran domenicale mio nonno realizzò che pagare un affitto, anche minimo, era un inutile spreco di denaro e doveva farsi un suo negozio, anche piccolo.
A dire il vero era un po' che aveva adocchiato un fazzoletto di terra in via IV Novembre, poco dopo la strettoia di Luciano Guardianeglio, e aveva messo spia, come si dice da noi quando metti in allerta il proprietario, ma non manifesti apertamente la tua volontà di acquistare, per non farsi vedere troppo interessati ed evitare di far lievitare il prezzo inutilmente.
Poi si era messo, pazientemente, ad aspettare l'occasione giusta.
Che puntuale, sarebbe arrivata di lì a poco.
Un giorno che stava giocando a carte al bar del cognato Filippo Di Bello, in piazza Umberto, aveva visto avvicinarsi di corsa dal fondo del viale la moglie di Pecoreglio tutta trafelata a dirgli che il marito si era deciso a vendere i 15-20 mq per la bella sommetta di 200mila lire e voleva perfezionare il contratto.
Mio nonno, che forse si aspettava pure di più, corse a casa, prese i soldi, che naturalmente aveva in contanti e andò a sventolarli sotto il muso di Angelino la pecora.
In un attimo avevano fatto il compromesso con tanto di scrittura privata.
Di lì a poco, con l'aiuto di suo cognato falegname carpentiere, avrebbe ingrandito la sua proropietà immobiliare, edificando con blocchetti di tufo, due stanzette, una sull'altra, con tanto di tetto in canali, al lato della strada, in posizione strategica per la sua attività commerciale. 
Dove, ancora oggi, dopo 50 anni, tra mille difficoltà, sopravvive, gestita malamente da me.
Mio padre che, intanto, quasi in concomitanza con l'arrivo di mio fratello Gaspare, detto Rino, aveva comprato la sua prima automobile, una Fiat 850 cremisi nuova fiammante al prezzo di lire 650.000, e non voleva lasciarla all'aperto, con l'aiuto di suo zio Vincenzo che faceva il falegname, costruì due vetrine mobili su rotelle e, quando il negozio aveva chiuso i battenti, lo trasformava in garage.
La sera, quando il negozio era chiuso e doveva ricoverare la macchina, metteva dentro le vetrine facendole scivolare sulle rotelle; la mattina faceva tutto al contrario: tirava su la sarcinesca del garage, cacciava fuori la macchina, risistemava le vetrine e apriva l'oreficeria per mio nonno.
Ci eravamo sistemati quasi da un anno nella nostra nuova casa a Valiavetta, quando mio nonno morì.
In realtà non morì subito, mia madre lo trovò con la bava alla bocca nella sua stanza, colpito da un ictus cerebri, che gli avrebbe lasciato poche ore di vita, come sentenziò il nuovo medico Vittorio, amico di mio padre.
Lo avevamo portato all'ospedale di Formia, di corsa con la 127 di zio Peppino, l'ex-sindaco, morto l'anno prima, che mi aveva appena regalata, proprio mio nonno.
Era sopravvissuto ancora un paio di giorni, ma si vedeva che non ce l'avrebbe fatta.
Era già un miracolo se avesse resistito per qualche ora.
Una mattina presto stavo lì, nella sua stanzetta, seduto sul letto accanto vuoto, a contare i suoi lenti, rumorosi, affannosi respiri.
Avevo da poco dato il cambio a mio padre, ch'era restato per la notte.
Con me c'era solo Zia Natalina, sua cognata, che corre sempre quando qualcuno della famiglia sta male: è la donna più buona e disinteressata che esista.
In quei due lunghissimi giorni di permanenza e di agonia in ospedale, il suo cuore era stato spesso fibrillante, come ebbe modo di dirmi il mio amico medico Raimengia.
A un certo punto, mio nonno, poveretto, aveva semplicemente cessato di respirare ed era morto.
Come se qualcuno, improvvisamente, avesse tolto la spina.
E' stata la prima persona che ho visto morire.
Aveva 75 anni, era il 1980.
Dopo di lui, a nemmeno una settimana di distanza, toccò a Nonno Gasparrino.
smr

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