Lo scorso 13 settembre è uscito Strange Mercy, il terzo album della cantante e polistrumentista texana Annie Erin Clark, in arte St. Vincent - che poi è il nome con cui firma tutte le cose che fa - una di quelle creature dell'ambiente indie newyorchese che da anni è il luogo da cui proviene il meglio del rock contemporaneo americano, fighetto quanto si vuole per carità, ma ad ascoltarlo decisamente creativo e vitale. Siccome in questi giorni è in giro per l'Italia il critico musicale Simon Reynolds, con il suo nuovo - e a quanto pare molto bello - Retromania, sacrosanta riflessione sulla "musica, la cultura pop e la nostra ossessione per il passato" (speculare dunque al testo di Morreale sulla nostalgia e il cinema), mi chiedo se ascoltando un lavoro come Strange Mercy si possa pensare a parole come retrò o malinconia. Perché è vero che molto dell'impianto sonoro delle canzoni di St. Vincent è modellato su riferimenti al passato, tra la musica da film e il rock sperimentale alla Zappa, e lo è altrettanto che la contaminazione di generi è ormai anch'essa una forma vecchia, postmoderno che si ripiega fatalmente su se stesso: ma in questo caso siamo di fronte a un album a mio parere sorprendente, un lavoro che poggia sulla contraddizione e lo scontro estetico, dove la voce sognante, un po' alla Julie Andrews, di St. Vincent sgomita con i ritmi sincopati delle canzoni, dove le atmosfere da musical vengono riprese e distrutte da schitarrate sporche eppure controllate, dove le derive progressive portano inattese aperture (un po' come nelle ultime cose dei Wilco) e tutto sa di scomposizione, di puzzle impazzito senza troppe istruzioni per l'uso. L'aspetto stesso della musicista, bella come una bambolina ma ravvivata da uno sguardo troppo luminoso per non inquietare, mette in crisi, lascia perplessi, laddove ti aspetteresti un'arpa ti ritrovi una chitarra elettrica suonata stretta stretta (come in questa canzone strepitosa), con tutto il carico di rivalsa anche sessuale che un'immagine del genere si porta appresso. Quella di St. Vincent è musica femminista e a suo modo militante, melodia tirata per le orecchie e spinta a forza fuori dal guscio. Sarà per questo, per l'immagine che evoca di una crisalide che esce dall'involucro, che mi sembra un'espressione piuttosto vitale dei nostri tempi, musica pur sempre retrò e contaminata ma anche, come quella del suo amico e "maestro" Sufjan, fase di passaggio di un'artista che sta cercando la propria strada e per ora non ha nessuna intenzione di fermarsi.
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Lo scorso 13 settembre è uscito Strange Mercy, il terzo album della cantante e polistrumentista texana Annie Erin Clark, in arte St. Vincent - che poi è il nome con cui firma tutte le cose che fa - una di quelle creature dell'ambiente indie newyorchese che da anni è il luogo da cui proviene il meglio del rock contemporaneo americano, fighetto quanto si vuole per carità, ma ad ascoltarlo decisamente creativo e vitale. Siccome in questi giorni è in giro per l'Italia il critico musicale Simon Reynolds, con il suo nuovo - e a quanto pare molto bello - Retromania, sacrosanta riflessione sulla "musica, la cultura pop e la nostra ossessione per il passato" (speculare dunque al testo di Morreale sulla nostalgia e il cinema), mi chiedo se ascoltando un lavoro come Strange Mercy si possa pensare a parole come retrò o malinconia. Perché è vero che molto dell'impianto sonoro delle canzoni di St. Vincent è modellato su riferimenti al passato, tra la musica da film e il rock sperimentale alla Zappa, e lo è altrettanto che la contaminazione di generi è ormai anch'essa una forma vecchia, postmoderno che si ripiega fatalmente su se stesso: ma in questo caso siamo di fronte a un album a mio parere sorprendente, un lavoro che poggia sulla contraddizione e lo scontro estetico, dove la voce sognante, un po' alla Julie Andrews, di St. Vincent sgomita con i ritmi sincopati delle canzoni, dove le atmosfere da musical vengono riprese e distrutte da schitarrate sporche eppure controllate, dove le derive progressive portano inattese aperture (un po' come nelle ultime cose dei Wilco) e tutto sa di scomposizione, di puzzle impazzito senza troppe istruzioni per l'uso. L'aspetto stesso della musicista, bella come una bambolina ma ravvivata da uno sguardo troppo luminoso per non inquietare, mette in crisi, lascia perplessi, laddove ti aspetteresti un'arpa ti ritrovi una chitarra elettrica suonata stretta stretta (come in questa canzone strepitosa), con tutto il carico di rivalsa anche sessuale che un'immagine del genere si porta appresso. Quella di St. Vincent è musica femminista e a suo modo militante, melodia tirata per le orecchie e spinta a forza fuori dal guscio. Sarà per questo, per l'immagine che evoca di una crisalide che esce dall'involucro, che mi sembra un'espressione piuttosto vitale dei nostri tempi, musica pur sempre retrò e contaminata ma anche, come quella del suo amico e "maestro" Sufjan, fase di passaggio di un'artista che sta cercando la propria strada e per ora non ha nessuna intenzione di fermarsi.
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