Stranieri in carcere: una spesa da 990 milioni

Creato il 29 ottobre 2013 da Retrò Online Magazine @retr_online

Il carcere di Regina Coeli a Roma (public domain).

Gli stranieri in carcere ci costano 990 milioni di euro all’anno.
Mentre in Camera e Senato si discute su amnistia e indulto, passa inosservata una soluzione molto più semplice. Almeno in apparenza.
Circa un terzo dei detenuti nelle carceri italiane sono stranieri. Cioè, secondo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, circa 22.770 persone.
Buona parte di loro potrebbero scontare la pena nei loro paesi d’origine. Non è difficile capire quali vantaggi questo potrebbe portare alle nostre asfittiche carceri: più spazio e meno costi, due piccioni con una fava. Allontanarsi dalle accuse di inciviltà dell’Unione Europea e allo stesso tempo avere un ritorno economico in termini di risparmio. Eppure, nonostante gli accordi bilaterali che hanno avuto origine dagli accordi di Strasburgo del 1983, l’Italia rimpatria talmente pochi stranieri che occupano le nostre carceri da non riportare nemmeno le stime ufficiali nei server dei ministeri. Il ministero degli Interni rimanda a quello di Grazia e Giustizia che non ha alcun dato da fornire e risponde: “avete provato al ministero degli Interni?”. Il numero di stranieri che stanno scontando una pena definitiva in celle italiane sono 12.509. Sono gli unici sui quali l’ipotesi del rimpatrio potrebbe essere eseguita. E costano allo Stato circa 125 € al giorno. All’anno fanno circa 550 milioni di euro. Un certo risparmio, che però resta nel mondo delle idee. E ci restano perché l’Italia, dopo aver sottoscritto l’accordo a Strasburgo, ha allargato i propri accordi, è vero: ma con i paesi “sbagliati”. La maggior parte dei detenuti stranieri nel Belpaese sono marocchini (4.249, il 19%); al secondo posto ci sono i romeni (16%) e i tunisini (12%). Mentre noi abbiamo stretto convenzioni con l’Avana, Hon Kong e Bangkok, che sono rappresentati nelle nostre carceri solo da una cinquantina di detenuti. L’unico “centro” l’Italia l’ha fatto con l’Albania (2.787 detenuti, il 12%). Gli unici dati sicuri forniti dal ministero degli Interni sono irrisori: meno di 450 detenuti rimpatriati tra il 2005 e il 2008. L’Italia, insomma, fatica a rispettare questi accordi. O comunque non ne approfitta, egoisticamente, ma razionalmente, parlando. Piuttosto che parlare di amnistia e indulto, parole che mal si sopportano dal punto di vista del cittadino incensurato, si potrebbero svuotare le celle utilizzando la formula dei rimpatri. Certo, non dovrebbe essere un’operazione di “Deportazione di massa”, come dice Angelo Alessandro Sammarco, professore di diritto dell’esecuzione penale dell’Università di Salerno. Secondo Sammarco l’operazione di rimpatrio è una pratica complicata. ”Il trasferimento può essere un diritto, quando, nell’ambito di accordi internazionali, a chiederlo sia l’interessato”. È insomma impraticabile come soluzione “in assenza della volontà dell’interessato o contro la volontà di questo”. Gli ostacoli sono molti: “I procedimenti sono ferruginosi, la burocrazia complicata e deve esserci un’intesa parlamentare forte”. ”È un terreno su cui è difficile lavorare” dice il professore universitario “anche perché la stessa possibilità di scontare la pena all’estero non viene magari correttamente comunicata al detenuto”. Ogni trasferimento dovrebbe poi tenere conto che lo Stato non può semplicemente rimettere la pena commessa a un altro Stato. Senza contare che tali espatri non possono prescindere dalla situazione individuale di ogni detenuto. ”La Bossi-Fini” specifica ancora il professor Sammarco “nei suoi casi di espatrio scaturisce sempre da procedimenti individuali, nonostante nell’immaginario collettivo abbiano preso la forma di deportazioni di massa”. La legge Bossi-Fini poi prevede il rimpatrio per il reato di clandestinità, non per altri reati. La morale quindi è che gli stranieri resteranno con ogni probabilità in cella fino al prossimo indulto, fino alla soluzione fisiologica successiva, del tutto inconsistente e che non pone fine al problema in maniera definitiva. ”Non ha senso buttare la gente in carcere ad anni di distanza dal reato commesso” dice Sammarco, “la pena deve essere rieducativa, ma oggi l’unica rieducazione è costituita dalla detenzione, che non è chiaramente rieducativa. Si potrebbero ideare forme alternative, come i lavori socialmente utili”.


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