“Le streghe hanno smesso di esistere quando noi abbiamo smesso di bruciarle” Voltaire <<Queste bestie eretiche hanno electo uno monte, el qual se chiama Monte Tonale, nel qual se reduseno ad foter e balare, qui afirmano che non trovano al mondo nihil delectabilius et che onzendo un bastone, montano a cavalo et eficitur equus, sopra il quale vanno a ditto monte et ibi inveniunt el diavolo, quale adorano per suo Dio et signore, et lui ge dà una certa polvere, con la quale dicte femene et homeni fanno morir fantolini, tempestar, et secar arbori et biave in campagna, et altri mali, et butando dicta polvere sopra uno saxo, si speza.>> (Alessandro Pompeio, Lettera del 28 luglio 1518 a Giovanni Giustiniani)
di Riccardo Alberto Quattrini. Primavera si sa è tempo di riti di fertilità e i nostri antenati, prima i Celti e poi i Romani, in questo periodo, nei campi, propiziavano le forze della natura. Molte forme rituali si svolgevano nei boschi e nei campi, dove venivano accesi fuochi e consumati banchetti, accompagnati da musiche e balli che spesso proseguivano fino a tarda notte o all’alba. Gli antichi dei, scacciati dalla cristianizzazione, non cessarono di vivere nelle tradizioni popolari e di essere venerati secondo le antiche usanze, ma le divinità furono trasformate dai sacerdoti della nuova religione in diavoli, i riti mutati in sabba infernali e coloro che li praticavano in maghi, streghe e stregoni, donne e uomini dediti al peccato. In terra bresciana la leggenda narra di streghe che dalle sponde del Sebino e dalla Valcamonica si raccoglievano sul Tonale in nefandi conciliaboli. Quando si trovavano assieme, queste “bestie eretiche” facevano diventare cavallo la scopa, andavano a braccetto col demonio e con gli occhi seccavano piante e fiori. Nell’estate di 497 anni fa terminava la caccia alle streghe della Valcamonica. Iniziata nel primi mesi del 1518. Una carneficina cui vanno aggiunte le persone rimaste mutilate o segnate nella salute dagli interrogatori. La tortura – contrariamente a quello che di solito si pensa – non era solo un mezzo, ma anche un fine, nel senso che se come “mezzo” veniva usata per estorcere la confessioni, come “fine” rappresentava un passaggio obbligato del processo, perché senza “il tormento delle carni” la confessione non aveva valore. Tutto questo era ben spiegato nel Malleus maleficarum, o il “martello delle malefiche”, il testo era un vero e proprio vademecum del perfetto inquisitore, scritto da Jakob Sprenger (1436 circa-1495) ed Heinrich Institor (1430 circa-1505 circa) e stampato verso il 1486. Malleus significa martello o maglio. Maleficarum è al femminile perché, nel pensiero dei due autori, e della loro epoca, chi fa malefici (da male e facere) non può che essere donna, quindi “malefica”. Infatti il Malleus, oltre a essere il trattato più completo e famoso sulla demonologia, è forse il volume più misogino e antifemminista che sia mai stato scritto, perlomeno nel Quattrocento.
Secondo i saggisti Michael Baigent e Richard Leigh, la Chiesa era così presa dalla persecuzione delle streghe e dall’inquisizione da non rendersi conto che, al suo stesso interno, si stava per propagare il seme della discordia: un monaco apostata, Martin Lutero, stava già predicando la sua Riforma. Anche se poi i maggiori cacciatori di streghe sarebbero stati proprio quei protestanti della Riforma. Per tutta la seconda metà del XVI secolo, infatti cattolici e protestanti condannarono al rogo migliaia di donne, accusate di stregoneria. La caccia alle streghe proseguì per secoli. In Italia vennero uccise più di cinquemila donne, anche se il numero è tutt’altro che preciso, dal momento che gli atti dei processi e dei roghi relativi alle streghe italiane si concentrò alla fine del Cinquecento in zone ben precise della penisola, come la Val Camonica e la Val di Fiemme.
Nelle principali pievi della Valcamonica giunsero cinque inquisitori: Giacomo de Gablani a Rogno, Valerio de Boni a Breno, Donato de Savale a Cemmo, e Battista Capurione a Edolo; Bernardino de Grossis a Pisogne. Tutti alle dirette dipendenze del vescovo Paolo Zane. Dal giorno del loro insediamento, tramite il pulpito, i parroci invitavano i fedeli a denunciare i sospetti: ciò favorì vendette, angherie, rivalse. E, soprattutto, notevoli vantaggi economici derivanti dalla caduta in disgrazia dell’inquisito
Che, com’è noto, prevedevano una totale confessione tra tali tormenti da far diventare rituale una frase al culmine della sopportazione:
«Ditemi cosa devo dire, io lo dirò e finiranno i miei tormenti».
E’ ciò che disse Benvegnuda Pincinella ai suoi torturatori. Negli atti del processo istituito a suo carico, Benvegnuda è accusata di stregoneria, dove i testimoni interrogati avevano affermato di aver avuto rimedi da questa donna e di aver assistito personalmente a pratiche sconosciute
Ma chi era questa donna.
Benvegnuda Pincinella nasce a Nave, in provincia di Brescia, in Valcamonica, nella seconda metà del 1440.
L’esatto anno di nascita non è conosciuto. Sin da bambina Benvegnuda è detta Pincinella perché assai minuta e piccola di statura. Era però assai bellina e soprattutto sveglia ed intelligente.
Figlia di pastori comincia da subito, appena riesce a tenere un bastone in mano, a portare le pecore ai pascoli. Ma si annoia a stare tutto il giorno ad osservare le bestie che brucano. Inizia a raccogliere erbe, ad assaggiarle, a studiarle, e poi, una volta a casa e riportato il gregge, va dalla medichessa del paese a farsi insegnare l’uso di ciascun erba o di ciascun germoglio. E impara, presto e bene. Comincia a usare le sue conoscenze sulle erbe rispondendo alle richieste dei compaesani per piccoli e grossi malanni e la sua fama di brava medichessa si estende a tutta la vallata. Non porterà più le pecore al pascolo, ma si dedicherà a tempo pieno al suo nuovo lavoro e ci si dedicherà con impegno, passione e dedizione.
Pincinella è una donna stravagante. Fa becco il marito, va a passeggio di notte con le amiche, pratica con successo l’arte magica. Proprio per questo è richiesta a destra e a manca. Le brave massere di tutto il circondario la chiamano a consulto per sgarbugliare i casi più difficili: briga e disbriga incantamenti, lega e slega matrimoni, guarisce i dolori d’intestino e le possessioni; confeziona cataplasmi, debella infezioni veneree come il “brusor d’orina”.
La donna è tenuta d’occhio da tutta la comunità del paese di Nave, in cui risiede, poiché ha già subito una lieve condanna nel 1509, quando, per ordine del padre inquisitore, per gli stessi reati stregoneschi, è stata costretta ad indossare l’abito infamante e a sottoporsi alle ghignanti provocazioni dei parrocchiani. Fu nello stesso anno che alla porta della sua casa di Nave, hanno bussato persino i servi di Sebastiano Giustiniani, podestà di Brescia. Il podestà ha una figlia poco più che una bambina. Giace immobile nel letto. La fame le si è spenta in gola. Tutti, familiari e servi, pensano subito alla conseguenza di una fattura e in particolare si ritiene che la fanciulla sia stata “maleficiada da una soa fantesca(1) dandoli da manzar”. Benvegnuda Pincinella lascia la sua casa di corsa, con un involto d’erbe, sicura di poter annullare il malefico influsso. Benvegnuda aveva preso con sé una manciata di sambuco. Ne aveva fatto un decotto, che era stato somministrato alla paziente per tre mattine di seguito. L’operazione avveniva mentre la guaritrice, con una stringa della malata fra le dita, pronunciava alcune frasi magiche. Tanta fama, ma forse soprattutto tanta perizia medica non passano inosservate all’Inquisizione che in quel periodo è molto attiva in tutta la zona del bresciano.
Il procedimento fatale per Benvegnuda Pincinella viene avviato nel giugno del 1518, su segnalazione di un solerte dirimpettaio della strega. Il delatore viene sentito il 19 giugno 1518. Si chiama Benvegnudo da Pontevico. È un cittadino bresciano temporaneamente domiciliato a Nave. Dopo aver prestato giuramento davanti a padre de Maziis, il denunciante dice di aver sentito molte persone degne di fede affermare che Pincinella è una strega, perché ha “strigato molte persone, come sono puti e pute stropiati e fatti morire”. Su ordine del grande Inquisitore Bernardino de Grossis in persona Pincinella viene arrestata. Nel corso della deposizione, resa al tribunale della santa Inquisizione di Brescia (nella persona del domenicano Fra Lorenzo Maggi) la strega, chiamando in causa pazienti illustri per cercare un’ingenua giustificazione, ricorda minuziosamente la terapia seguita per liberare la ragazzina. Il 20 giugno, padre Lorenzo lasciò Brescia e il convento di San Domenico per recarsi a Gussago, un paese a pochi chilometri, per verificare la testimonianza di tale Pasquina, figlia di Antonio de Comini. Senza tralasciare di chiederle la formula se la testimonianza era “per odio o per zelo della santa fede e per il bene dell’anima di costei”, la donna confermò all’inquisitore di essersi rivolta più volte alla Benvegnuda, soffermandosi su un episodio particolare relativo a “gravi motivi personali: mia madre stava molto male e io avevo saputo del potere che riusciva a esercitare anche a distanza Benvegnuda, con la sola presenza di un oggetto della persona sulla quale si voleva intervenire”. Pasquina aveva portato con sé una stringa di sua madre e questa era bastata alla strega per guarire a distanza la moribonda. Altra testimonianza fu quella di Zuan Francesco de Tolinis “notaro”, che raccontò come Benvegnuda avesse preparato un incantesimo per fare in modo che una avvenente ragazza sulla quale aveva messo gli occhi, tanto da fargli perdere il sonno, si innamorasse di lui. E così era stato. A queste testimonianze e ad altre ancora si aggiunse quella di monsignor Zuane de Stephani, curato e presbiterio della chiesa di Santa Maria di Nave. Il sacerdote, che conosceva la donna da sempre per essere sua parrocchiana, ricordò all’inquisitore che Benvegnuda era già incorsa in un processo per stregoneria nel 1509 e se l’era cavata con la diffida a praticare ancora arti magiche. Un particolare che padre de Maziis terrà in debito conto nel proseguire le sue indagini. Sollecitato dall’inquisitore, il parroco raccontò i dettagli della vicenda precedente e di come i giudici fossero stati magnanimi con quella donna: ricordava bene il giorno in cui l’aveva trovata seduta e singhiozzante sui gradini della chiesa, mentre chiedeva pietà e riabilitazione ai parrocchiani. “Gaveva un saio de tela con croci rosse cucite sopra a denunzia de la colpa infamante”. In quella condizione supplicava il perdono per “essere stata sententiada per striga”, come lei stessa piagnucolava. La Benvegnuda, aggiungeva, aveva “più e più volte contravegnudo alla diffida”.
Quando ritenne di avere prove sufficienti per giudicare quella donna imputata di stregoneria, padre Lorenzo de Maziis fece arrestare Benvegnuda da Pietro Albanese addetto militare dell’Inquisizione di Brescia e cavaliere ufficiale della Santa Croce. Il nuovo processo contro “la strega di Nave” inizia il 24 giugno 1518.
Tre giorni dopo il suo arresto e i primi “tormenti” con la corda (che provocava lo stiramento delle articolazioni), Benvegnuda cedette, ammettendo ogni colpa e coinvolgendo altre persone. Il primo nome che fece fu quello di un certo Zulian, che gli avrebbe insegnato il maggior numero di segreti. E quando le venne chiesto di rivelare dove abitasse questo Zulian perché potesse essere prelevato e interrogato, la donna fece un’affermazione che convinse l’inquisitore di trovarsi di fronte a una vera e propria strega. “Chi è e dove si trova questo Zulian?” aveva chiesto de Maziis. “Sta dentro la mia gamba destra da tredese anni”. Si trattava infatti, secondo lei, di un diavolo che da lì, da dentro la gamba, le diceva cosa fare e le trasmetteva consigli infallibili. “La prima volta che lo gò incontrato”, spiegò l’imputata, “era una notte de setembre”. La Pincinella fece quindi un racconto sempre più dettagliato a un Maziis sempre più eccitato, quando accennò a quell’incontro con la giovane Fior figlia di “tale Pizin de Ferari” che le aveva proposto di andare a raccogliere l’uva vicino alla cava di calce di proprietà di un uomo chiamato Zuan d’Urago, nei pressi del fiume Mella. Lungo la strada, la giovane Fior e la più vecchia Benvegnuda, che all’epoca aveva trentasei anni, aveva incontrato Maria, una conoscente, che aveva chiesto di potersi unire a loro. Le tre avevano quindi raggiunto il fiume, dove, in un prato, aveva visto una signora (“la parea una dea”) che indossava un abito di velluto nero. Fior e Benvegnuda non si erano ancora riprese dallo stupore, quando Maria aveva stretto i polsi delle sue compagne offrendole a due uomini, i quali si erano staccati da un gruppo che fino a quel momento non avevano visto, e che si trovava vicino alla signora vestita di nero. Questi due uomini, Martin e Zulian, avevano trascinato Fior e Benvegnuda in uno spiazzo poco distante, spogliandole completamente e possedendole “più volte e in più modi”.
All’alba, Benvegnuda si era ritrovata sola e stanca, tanto da non riuscire ad alzarsi sulle gambe: l’aveva così soccorsa una bambina che poi s’era anche offerta di accompagnarla a casa. “El demonio Zulian”, spiegò Pincinella all’inquisitore, “me aveva consumato usando con esso carnalmente, et per ballar et andar tuta la note a matezar”.
Padre de Maziis approfittò della posseduta per farle delle domande su Dio e gli angeli, le chiedeva perché un diavolo dovrebbe tradire le sue schiere per confessare i nomi dei complici. “e se gli uomini si tradiscono, warum sollte nicht die Teufel” (perché mai non dovrebbero farlo i diavoli). Rispondeva argutamente la donna, mescolando lingue che non aveva mai conosciuto, spesso contorcendosi a terra ma il più delle volte rimaneva composta, semplicemente tenendo quegli occhi sbarrati, senza mai muovere le palpebre. Nonostante si riempissero di vene rosse fino a lacrimare. Così venne portata davanti alla folla riunita e lei fissando la gente tremante diceva: “vedo dei magi” chiunque poteva essere accusato, e scagionarsi era impossibile. Un’accusa che veniva direttamente da un diavolo non poteva essere smentita, ed eri già carne bruciata.
Lorenzo Maziis era sulla strada giusta. Ormai era solo una questione di tempo, ma sarebbe venuto a capo di tutta quella storia. Il racconto di quella donnetta fu preciso e dettagliato, ma lui volle mandare a Venezia un verbale come non si era mai visto prima.
“Hai tu mai sospetato, sciagurata, la natura maligna de quel omo col quale t’eri accoppiata carnalmente e anco contra natura?” Benvegnuda rispose di sì. Disse che aveva pensato che fosse “un demonio” a causa della temperatura fredda del suo sperma. “Naturale”, aveva confermato l’esperto inquisitore, “il diavolo no ga corpo, egli se serve de altri corpi”. Aveva quindi dottamente aggiunto che, per materializzarsi, un demone spesso utilizzava cadaveri che, ovviamente, non potevano avere sangue caldo. Dopo quel primo incontro – aveva seguitato a raccontare la sciagurata – il diavolo Zulian non l’aveva più lasciata, e anche ora che si trovava in prigione, andava a trovarla per diffidarla dal nominarlo. Da quel momento in poi Pincinella fu un fiume in piena per la soddisfazione del de Maziis. Di fatto, scavandosi la fossa, anzi, accumulando essa stessa le fascine per il suo rogo.
In una spirale di confessioni e accuse l’intera Valle Camonica brucia e il fumo nero dei roghi si leva come un immenso olocausto al Demonio.
Alla fine di quello che, più che un processo, può essere definito un atto accusatorio pubblico cui l’accusata non ha avuto diritto nemmeno a una difesa, il vicario Battista de Caperonibus pronunciò la sentenza contro Benvegnuda Pincinella: “Abbiamo accertato”, si dichiarò, “che hai ripreso i tuoi sabba satanici con il tuo complice, il demone Zuliano, e con altri demoni, e che sei stata nel bosco ogni giovedì finché sei stata catturata e portata dagli ufficiali della Santa Inquisizione in prigione, e che sei tornata un’altra volta in quel luogo, hai rinnegato la fede e hai accettato Satana come tuo Dio. Il tribunale ecclesiastico, constatata con certezza la tua ricaduta nell’eretica malvagità, ti consegna nelle mani del giudice secolare perché senza spargimento di sangue e rischio di morte esegua la sentenza”.
Finito il suo lavoro, l’Inquisizione consegnò quindi, come sempre, la colpevole al potere laico, perché provvedesse di conseguenza, decidendo in totale autonomia. Per Benvegnuda Pincinella non ci fu comunque nessuna “clemenza”.
Senza scope magiche e gatti diabolici, con il contatto di un ruvido saio sulla pelle, Benvegnuda Pincinella giunge in piazza della Loggia a Brescia, fra un doppio cordone di birri. Zulian, suo diavolo custode, agile e fottutissimo rosso malpelo, l’ha definitivamente abbandonata. La pila di legna è stata preparata ai piedi della colonna, dove è appollaiato il leone di San Marco. Benvegnuda espia definitivamente il peccato stregonesco a sessant’anni, nel torrido 29 luglio del 1518. A nord, Lutero sta intrigando contro l’unità della chiesa. In provincia i preti rinnegano la dottrina cristiana. Si conculcano le ostie nella pubblica via e prendono corpo gli infausti vaticini dei mistici che vedono l’opulenta e augusta «Bressa» squinternata preda del demonio. Il giorno prima, nella piazza principale di Pisogne (oggi Piazza Umberto I), dove aveva svolto la sua opera il più spietato degli inquisitori: Bernardino de Grossis, furono giustiziate otto giovani donne accusate di stregoneria, ultimo atto della feroce caccia alle streghe della Valcamonica.
Il giorno 23 agosto 1518, il Consiglio dei Dieci di Venezia, uno dei principali organi di governo della Repubblica, si riunì in una seduta straordinaria per affrontare un problema che riguardava un territorio bresciano: quello della Valcamonica, dove, fra giugno e luglio, erano state eseguite fra le 60 e le 80 sentenze capitali (i documenti non sono concordanti al riguardo). Esaminando i verbali di quei processi risultavano parecchie irregolarità, fra cui la più evidente era l’assenza sistematica di qualsiasi difensore. Di conseguenza, i procedimenti ancora in corso vennero sospesi. Il bilancio di quella “caccia alle streghe della Valcamonica” si concluderà con un bilancio che gli storici quantificheranno con numeri inquietanti, registrando che quasi tre quarti della popolazione locale, censita in cinquemila abitanti, era stata inquisita.
Il poeta italiano Gerolamo Folengo([1]) scriveva:
“Signori miei, son stato in Valcamonica
per consultare le streghe di quel loco
se mi saprebbon di Turpin la cronica
mostrar per forza d’incantato foco;
una vecchiarda in volto malinconica
rispose allor con un vocione roco:
-Gnaffe, che sì tu lo vedrai di botto;
entra qui tosto meco e non far motto.”
(1) Le fantesche sono le donne più esposte alle accuse stregonesche. Mai «bestie» quanto i servi, creature ambiguamente dotate di un’educazione o di un portamento superiori, spesso diventano amanti dei padroni o comunque aspirano a conseguire la potestà padronale, attraverso matrimoni o contratti segreti.
(2) Gerolamo Folengo, poeta italiano, tra i principali esponenti della poesia maccheronica (1491-1544)
Bibliografia
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Massimo Prevideprato, Santa Caterina di Berzo: il caso di una mistificatrice nella Valcamonica del Seicento, in “studi e fonti di storia lombarda”, Milano, 1991.
Massimo Prevideprato, Tu hai renegà la fede. Stregheria ed inquisizione in Valcamonica e nelle Prealpi lombarde dal XV al XVIII secolo, Vannini, Brescia, 1992
45.. Rosa, Processi di streghe, in “Archivio storico lombardo”, XVI, 1889, pp. 625-45.
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- Tortelli, Inquisizione e stregoneria a Brescia e nelle valli. La difficile convivenza fra autorità laiche e religiose nei primi decenni del XVI secolo, in “Scritti in onore di Gaetano Panazza“, Brescia 1994.
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