Mio nonno aveva un aratro con i buoi e una vanga. Dissodava, vangava e zappava. Seminava e raccoglieva, grano, baccelli, ceci, carciofi. Poi c'era una piccola vigna e un discreto numero di olivi.
Mio padre aveva una carriola e una mestola. Edificava, demoliva e ristrutturava. Ha costruito case, tra cui la mia, ha progettato e messo in piedi non so quanti archi e quanti caminetti, le sue passioni.
Io ho un computer e excel. Dissodo le mie tabelle con il cerca verticale e le edifico con i bordi, gli sfondi colorati e le font innovative.
Mio nonno mi ha insegnato a caricare il peso sulla vanga e mio padre a rimestare la calce con la pala.
Ma io cosa dirò ai miei figli? Che arte, che mestiere potrò lasciar loro in eredità?
Di quali astuzie potrò metterli a parte? Li istruirò sul testo in colonne o sul convalida dati, ma poi?
La prima sensazione è che questo srotolamento di progresso ci dipinga dentro a scenari sempre più sofisticati ma vuoti, e che la minore fatica fisica da sviluppare nelle attività moderne possa causare percezioni distorte dei valori dell'esistenza, o alterarne i pesi.
Ma quando i miei futili strumenti sembrano irrimediabilmente allontanarmi dalla tradizione familiare penso che in definitiva, lavorare con coscienza, cercando di dare il meglio, quando si rivolta una zolla, quando si tira su un muro a piombo o quando s'imposta una tabella pivot, comunque serva ad intrecciare quel filo immaginario e immaginato che, attraversandoci, ci lega.