Magazine Cultura

Stupida

Da Diletti Riletti @DilettieRiletti

 

Ero sulle punte davanti allo specchio a mezzo busto nella camera dei miei, intenta ad abbottonarmi il grembiulino bianco.

“Stupida”

Lo disse senza una particolare intenzione di ferirmi quella volta, devo ammetterlo, e forse è per quello che mi ferì di più, mi resi conto che oramai per lei era così chiara la mia inettitudine che non aveva bisogno di sottolinearla con un tono brusco, o con un volume di voce più alto del solito. Stupida era la parola che le sentivo rivolgermi più spesso, sostituita raramente da varianti: scema, cretina, demente. Ma era stupida quella che preferiva. Avevo saltato un bottone, avessi avuto dieci anni di più, e molto molto coraggio, le avrei tirato quell’immacolata protezione da pennarelli ed acquerelli dritta in faccia, ma avevo solo otto anni. E lei era mia madre. Oh, a vederla nessuno avrebbe mai pensato fosse una donna meschina e cattiva, nemmeno i vicini sospettavano qualcosa circa la sua indole, tutta svenevolezze e sorrisi in pubblico, brusca e perfida tra le mura domestiche. Mio padre evitava quanto più possibile la permanenza in casa: pensionato, era più affaccendato d’un banchiere. Ricordo quel periodo come il peggiore della mia vita, fosse stato per quella donna, di nome Maria come la Madonna, certamente avrei vagato per le strade sporca e cenciosa senza preoccupazione alcuna ma, originaria di un piccolo paesino del bresciano com’era, temeva il giudizio dei vicini ancora più di quello di Dio. Ero perciò una bambina sempre ordinata, con le trecce fatte con tanta cura che sentivo la cute tirata fin dietro le orecchie e, se per caso scorgeva una macchiolina sul mio viso mentre lo scuolabus mi attendeva nel vialetto, si sputava velocemente sulla mano per cancellarla. Temo avrebbe preferito di molto sputare in faccia a me. Non mi picchiava, quello no, credo non pensasse io meritassi un tale sforzo fisico, ma mi guardava con costante ribrezzo. Eppure ero carina, non una di quelle bamboline nordiche, ma ero una bambina almeno decente, vedevo mamme amare piccole sgraziate ranocchiette, e mi convinsi che forse semplicemente io di quell’amore che vedevo nelle case altrui, dove la signora mia madre era sempre molo lieta di spedirmi, non ero degna. Il peggio veniva quando quel maledetto scuolabus, per una ragione o per un’altra, non poteva passare a prendermi. Quella donna piccola e nodosa che m’aveva generata si vestiva di tutta la sua contrizione e d’una mantella color pesca, orribile, e mi accompagnava a piedi fino all’ingresso di scuola, poerché tutti vedessero che era fin lì che mi conduceva. Non che mettessimo su una messinscena con bacio finale, ma poco ci mancava. Solo che mia madre era tanto più vecchia di tutte le altre e quel briciolo di felicità che provavo nel vederla fingersi affettuosa svaniva immediato al comparire delle ingiurie dei compagni. Sembrava mia nonna, non potevo replicare.

Con la fine delle elementari la situazione migliorò, poveri com’eravamo non avevo potuto frequentare il corso di danza che desideravo, ma mi era concesso di frequentare l’oratorio, cosa che facevo con piacere. A dodici anni, proprio dietro la sacrestia, ricevetti il mio primo bacio, e lo stesso ragazzino giorni dopo mi palpò il seno, provocandomi una tale onda di calore che per ore sentii la testa galleggiare. Credetti di riconoscere in quella mano sul mio seno, in quel desiderio ardente e brufoloso, un po’ d’amore. Durò poco, ma per la prima volta io sentii che qualcuno voleva avermi con sé. E poi bastava aspettare un giorno al mese, un solo giorno, in cui ero davvero libera e, mi spingerei a dire, serena. Vivevamo nelle Marche da quando avevo pochi mesi, ma come ho detto i miei erano originari di un paesello di poche anime del bresciano e, oh gaudio, una volta al mese si toglievano dalle scatole. Andavano su, al nord, alle prime luci dell’alba, credevo a visitare cimiteri e tombe di parenti, gli unici a poter sopportare mia madre, o quantomeno a non poter esprimere a parole il proprio fastidio; rientravano poi, la donna carrarmato e mio padre, solo a notte inoltarata, con lei che piangeva e lui, nll’unico gesto tenero che ricordi nei miei confronti, le diceva di abbassare la voce per non svegliarmi.

“Quella cagna, che me ne importa…” diceva lei. Oh, cuore di mamma.
Da queste esternazioni e dall’umore nero di mia madre, credetti di poter trarre la conclusione che ci fossimo trasferiti per causa mia, magari per darmi un futuro migliore in un posto che a loro giudizio fosse più adatto a una bambina. Però il tutto mancava senza dubbio di logica. Lei mi detestava, manco fossi un ratto che ogni dì le defecava sui pasti, però avrebbe accettato di spostarsi dalla sua cara terra per amore mio? E poi, perché non mi portavano mai con loro? Ero così repellente che nessun cugino, zio, nonno, o parente qualsiasi avrebbe potuto reggere alla mia vista? Possedevo una sola testa come tutti. No, davvero, sebbene facessi ogni sforzo non riuscivo proprio a capire. Mia madre era aliena a tutto il tessuto sociale del nostro luogo d’adozione, non ricordo d’averla mai vista far visita ad una vicina, né di averne vista alcuna a casa nostra, men che meno potrei dire esistesse una persona che fosse possibile definire sua amica. Era un’eremita al centro d’una città. Così arida e rosa da una rabbia incomprensibile da non riuscire a sopportare la vicinanza di nessuno. Per mio padre era diverso. Quel suo girovagare lontano da noi, sua moglie e la figlia tanto odiata, gli aveva donato una rete di conoscenti capace di riempire il vuoto delle sue giornate. Che piovesse o ci fosse il sole, che grandinasse o ci fosse la neve, le sue puntatine al bar, all’edicola, alla snai, ai giardinetti e alla bocciofila – luoghi in cui gli avrei consigliato di spostare la residenza, per comodità- non erano mai in discussione. Tutto, pur di varcare il confine dell’inferno di silenzio domestico e astio che avviluppava le nostre vite.

Avrei voluto seguirlo talvolta, sognavo avesse un’amante. Nel caso l’avessi scoperto non avevo alcun dubbio su come mi sarei comportata: l’avrei detto a mia madre in un battibaleno. Avrei goduto dapprima dell’espressione addolorata del suo volto, le avrei poi comunicato con tutta calma che io, papà e la sua nuova donna avevamo deciso di andare a vivere insieme, lontano da lei e, senza tradire emozione alcuna, le avrei comunicato che avevo intenzione di chiamare mamma quella nuova signora. Lo immaginavo ad occhi aperti e lo smembramento della mia famiglia mi pareva il sogno più bello possibile. Non accadde mai ovviamente, e non perché mio padre la amasse, questo no, ma la temeva come un uccellino teme il gatto. Lo avrebbe ingurgitato in un sol boccone, e nemmeno lei lo amava, ma non avrebbe tollerato le chiacchiere del vicinato, lo avrebbe ucciso piuttosto. Certo questa cosa oggi ha un senso.

Mi fu concesso di frequentare le scuole superiori, ma non il liceo classico come avrei sempre desiderato, volevano avessi un titolo di studi superiore che però mi consentisse di andare a lavorare compiuti i diciott‘anni, e di certo non avrebbero speso soldi per mandarmi all’università. Non mi volevano shampista, ma nemmeno professoressa. Segretaria era un traguardo ragionevole. Mi distinguevo a scuola, come sempre: la speranza che dei voti alti avrebbero fatto sì che mia madre si convincesse ad amarmi non moriva mai. Manco a dirlo, noi aspiranti segretarie eravamo tutte femmine di famiglie medio-basse. E sognavamo il grande amore. Io lo sognavo almeno lo stesso numero di volte in cui speravo che papà tradisse la mamma, entrambi gli scenari avevano lo stesso finale: io che andavo via di casa. Non che non avessi considerato la fuga, tuttavia il timore che, in caso avessi cambiato idea, non sarei mai più stata riaccolta rendeva questa terza via impraticabile. Forse fu per questo, o perché ero fatta male non lo so, che presi ad avere tanti uomini, pur mantendendo intatta la mia verginità. Non disdegnavo di baciare chiunque me lo chiedesse, di offrire piccole porzioni del mio corpo a chi fosse in vena di esplorale, lasciavo che il fruttivendolo, di quindici anni più grande di me, passasse le sue mani callose sulle parti di me che ritenevo ragionevoli donare ad altri. Ero famelica di sguardi, e di carezze. Poi però accadde: qualcuno riferì queste cose sul mio conto, ingolosite con succulenti quanto inventati particolari, a mia madre. Scoppiò una guerra. Volarono piatti e sedie e supellettili e insulti e ingiurie e forse mi fu gettato dietro anche mio padre inerme. E allora accadde. Quella donna fredda e altera mi guardò con lo sguardio più carico d’odio che le avessi mai visto e disse:
“Sei una cagna, tale e quale a tua madre”

Non diede altre spiegazioni, mi comunicò in un attimo, mentre ancora io cercavo di capire cosa avesse detto, che ero in punizione per sempre, che sarei stata ritirata da scuola e corse via, chiusa in camera sua nel più assoluto mutismo. Chiesi, piansi, strillai, diedi in escandescenze ma quelle due persone che vivevano con me e che al momento mi parevano estranei si rifiutarono di darmi spiegazioni. Quella frase cadde come un lampo e si esaurì con la stessa velocità: volevano fingessi di non averla sentita. Ma come fare? Passavano i giorni, io avevo solo diciassette anni e credevo di stare per impazzire, poi accadde il miracolo. Conobbi un muratore che si occupava del rifacimento delle scale del mio palazzo e me ne innamorai, pazzamente. Non che quella frase avesse smesso di bucarmi il cervello, come un goccia cinese dolorosa, ma la possibilità di fuggire via lontano al momento sembrava essere l’unica cosa davvero imporate. Anche lui mi amava, pazzamente quanto me. Fiori, regali, carezze: la mia vita pareva finalmente avere una ragione, io avevo una ragione per cui esser viva. Quando mi colpì la prima volta, adiratosi per una mia occhiata irriverente al vicino di casa, non me la presi molto. Era o no il segno che, al contrario della mia madre putativa che mai mi aveva sfiorata, mi amava? E nemmeno quando lo fece la seconda, o la terza. Per i miei oramai ero un peso insostenibile, la mia presenza in quella casa, accompagnata da un mistero che nessuno voleva svelare, era pesante come piombo e, credo proprio per questo, la mia relazione con Ernesto non è stata mai avversata, anzi. Il primo gesto di tenerezza di mia madre lo ricordo proprio allora. Ernesto, incautamente quella volta, mi colpì al viso lasciandomi in ricordo un vistoso occhio nero, impossibile da nascondere e lei, mia mamma, mi prese per un braccio a vedermi ridotta a quel modo e mi condusse in bagno.
“Non devi farlo arrabbiare, se ti punisce è per amore, ti do del fondotinta”.

Disse tutto con una tale dolcezza che mi commosse, e m’aveva toccata, non per lavarmi come da bambina, o per scostarmi come da ragazza: m’aveva toccata per condurmi con sé. Seguirono mesi difficili, io non avevo un buon carattere e Ernesto era costretto a punirmi e correggermi spesso, per fare di me una donna adatta ad essere sposata quando avessi raggiunto la maggiore età. Non mi faceva mai troppo male, in tanto tempo mi ruppe solo una costola e mi procurò solo una leggerissima deviazione del setto nasale. Mi dava perlopiù qualche schiaffo e qualche calcio, per educarmi. Avrei imparato in breve tempo ad essere donna e moglie e lui mi avrebbe finalmente portata via con sé. Ahimé erano molti i miei difetti e lui era costretto ad intervenire davvero spesso e io, caparbia, facevo fatica, molta fatica, a capire cosa lo facesse arrabbiare in modo da non ripeterlo. Le botte aumentavano, ma lui mi amava e io volevo scappare di là. Nel mentre la mia mente correva. Che cosa significavano quelle parole? Chi era mia madre? Che fossi davvero il frutto del tradimento di mio padre con un’altra donna, dopotutto io portavo il suo cognome.

Quel giorno ero sulle nuvole, persa tra mille pensieri che mi vedevano rapita in fasce, comprata da mia madre da una donna con troppi figli o trovata in un cassonetto e raccolta per pena, fatto sta che richiamata da Ernesto alla realtà gli risposi male, infastidita: non volevo essere strappata così bruscamente al corso dei miei pensieri che mi raccontavano vite diverse che avrei potuto avere. Fu allora che Ernesto esagerò: mi picchiò con una tale forza e tanto improvvisamente che non parai nemmeno uno dei suoi colpi, mi percosse ovunque, mi pizzicò, mi morse perfino e mi ruppe un braccio. Dovetti assentarmi dal lavoretto part time che svolgevo presso lo studio d’un avvocato e persi il posto. Lui mi ricompensò con un gigantesco mazzo di fiori e la consolazione massima che riuscì a darmi: non importava che avessi perso il lavoro, da sposati non avrebbe mai acconsentito a che io andassi in giro, fuori casa, a fare chissà cosa. Avevo capito che stavo per scappare da una prigione per entrare in un’altra, ma non vedevo alternative. Poi pensai a lei, volevo trovare lei.

Ma da dove partire? Da dove cominciare la ricerca? Non avevamo computer a casa, Ernesto non mi lasciava avere un cellulare, ero sorvegliata a vista. E venne quel giorno del mese, quello in cui i miei partivano. Finsi con Ernesto di essere ancora dolorante per quello che lo avevo costretto a farmi -ci esprimevamo così tra noi- consentendogli di chiamarmi ogni ora affinché potesse controllare, con telefonate a sorpresa, che io mi trovassi effettivamente a casa.
E allora cercai, senza fermarmi un attimo, rovistai in tutti i cassetti, senza preoccuparmi di rimettere in ordine, scavai, rovistai, ovunque, in ogni recondito angolo. Non mangiai, non bevvi, non feci pipì, mi fermai solo per rispondere al telefono e lo feci solo per paura che Ernesto si scapicollasse a casa mia a darmele nel caso in cui non lo avessi fatto. E non era delle botte che avevo paura: avevo paura di arrestare la mia ricerca. Avevo quasi perso le speranze quando, in un solo foglio di carta, vidi riscritta la mia esistenza. Un solo, unico foglio: il mio certificato di nascita
Sul mio nome non vi erano dubbi, io ero Annalisa Bozza, come sempre avevo saputo, il cognome era lo stesso, Bozza, ma invece del nome di mio padre, Benito, figurava come genitore un certo Daniele. Daniele chi? Su quello di mia madre poi il mistero si infittiva, risultavo infatti figlia di una certa Giovanna Diodato. E chi era?
Rimasi lì, al buio, sommersa tra le carte per le altre tre ore che ci vollero ai miei per rincasare, e smisi perfino di rispondere al telefono, cosa che non mancò di trascinare Ernesto al mio uscio. “Vattene”, gli urlai quando quasi rischiava di buttare giù la porta di casa mia a furia di colpirla con calci e pugni, e lui ovviamente giurò che m’avrebbe uccisa. Quando mia madre e mio padre, insomma quei due individui rincasarono, lei come sempre piangeva e lui la pregava di tacere, poi mi videro lì, per terra, piena di carte e con uno sguardo interrogativo.

“Non hai capito ancora, eh? Vabbè, ma tu sei stupida, come quella cagna di tua madre”, mi disse lei e lui, per la prima volta in mia presenza, cominciò a piangere. “Vuoi sapere?” chiese lei, risposi di sì. “Cè poco da dire, tua madre era una cagna. Senza soldi e senza futuro, tuo padre, mio figlio, si innarmorò di lei. Povero figlio mio. Lei lo tradiva, lo sapevano tutti e che doveva fare lui, povero figlio? Era incinta di te quella puttana e lui se la sposò, ma non poteva dimenticare che tutti in paese gli ridevano dietro. Un giorno lei lo provocò, sono sicura, e lui la colpì con un coltello, ma mica la voleva ammazzare, la voleva solo far stare zitta. E quella cagna morì. Non si dispiacque nessuno, manco i genitori aveva. Ma tuo padre è un buono e mi fece giurare di prendermi cura di te. Sei forunata che quando t’abbiamo fatto fare le analisi del dna è risultato che quella donnaccia aveva fatto in mdo di fare un figlio proprio col mio povero Daniele. Altrimenti ti avrei buttata nel Po.”

Non dissi una sola parola, presi alcuni soldi che tenevo conservati in un cassetto e uscii, lungi da me l’idea di passare a salutare Ernesto. Partii, per quel paese in cui loro andavano una volta al mese, e non li vidi più. Arrivata lì, non mi fermai da nessuna parte, ma andai al cimitero, sulla tomba di mia madre, come fosse l’unica cosa al mondo che valesse la pena fare. Non piansi, nemmeno una lacrima. Il custode mi vide lì e mi sorrise “Non viene mai nessuno qui, signorina, eppure era così bella questa ragazza. E buona. Ma il marito, che brutto arnese, sta in galera qua vicino. Pensi, la colpì con un coltello mentre teneva in braccio una creatura di pochi mesi e lei, per non farla cadere, si lasciò colpire e morì”. “Grazie” risposi, e quello non capì. È difficile da spiegare, ma ero felice, al settimo cielo: ero stata amata, come tutti, anche mia madre m’aveva amata, come facevano le mamme degli altri. Salii su una corriera senza neanche sapere dove sarei arrivata, magari al nord, o al sud, forse pure fuori dal Paese. Non mi importava nulla. Ero solo una persona amata e tanto fortunata, chi poteva dire come me di ricordare il giorno in cui è venuto al mondo? Quello era senza dubbio il mio.


Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog