Magazine Cinema
40 anni Vergine
Judd Apatow è stato il Re mida della commedia Hollywoodiana. Salutato come l'unico in grado di risollevare un genere del tutto votato alla demenzialità, ci è riuscito in fin dei conti. Peccato che il giochetto sia durato poco, troppo poco e che il filone "bromance" abbia assunto dei caratteri meno goliardici per essere in linea con le amenità di Apatow. Per chi scrive, "40 anni vergine" è un brutto film, lento e noioso, a cui sarebbe bastata una sforbiciata di 40 minuti per garantire un minimo di resistenza da parte dello spettatore. Non contento, Apatow è tornato a dirigere sulla stessa falsariga "Molto incinta" per poi crescere con un peplum monumentale (a livello di durata) come "Funny People". L'unico risultato è che si arriva a preferire Apatow produttore e sceneggiatore, perchè i suoi film, quelli che dirige, sono tutto fuorchè ben diretti, originali, carichi di verve. Più precisamente sono di una noia mortale. E così "Zohan", che non è certo un capolavoro, casomai un cult idiota, "Strafumati", finora la vetta massima della produzione dell'ultimo periodo degli affiliati, e "Forgetting Sarah Marshall", in attesa dello spin-off abbastanza amato oltreoceano, appaiono produzioni molto più coraggiose. E sono film che Apatow produce.Nei film che Airige, invece, tende a non eccedere nella costruzione narrativa, ma i suoi personaggi sono del tutto privi di emapatia, di carattere, di simpatia. Lanciano la battuta ed escono di scena, oppure, lo Steve Carrell del film in onda stasera ne è un esempio, tendono all'inettitudine bonaria e all'inadeguatezza alla fine stancante. L'intero ensamble delle varie produzioni diventa ripetivo: Seth Rogen, Paul Rudd, Leslie Mann (per evidenti motivi quest'ultima), John J. Reilly, Johan Hill e Micheal Cera, con qualche nome di nicchia come Catherine Keener e Richard Jerkins, a cui si aggiungano personalità in vista, da Jack Black (uno dei film più brutti che abbia mai visto,"Anno Uno") ad adam Sandler (che invece ricopre il suo ruolo migliore di un'intera carriera, a parte Anderson) e qualche novità. E così la verginità, come la maternità, come l'adolescenza, come la malattia presunta, diventano solo dei pretesti per accozzare elementi comici-non comici, con qualche gag e molti colpi di sonno. Stasera vedete altro.
alle 21,00 su Studio Universal vi consigliamo:
Zoolander
Ben Stiller è un beota, o almeno così vuole far credere, impegnandosi con grande passione. Edifica la sua fortuna sulle mossette facciali, sembra fatto di nylon. E’ simpatico, nonostante non si veda quasi mai ridere. Anzi, è proprio questo il suo pregio: quando si mostra divertito, stuzzica poco, pochissimo, di contrasto, nei casi in cui si trova ad essere sbeffeggiato, deriso, e quando volteggia nelle quattro peripezie genuine, imprescindibili nei suoi film, stimola una reazione più piacevole. Sembra affetto dalla “paperinite”, con un linguaggio più tenace, vivace, da rammollito. Non è un eroe, è un attore sull’orlo del precipizio, impegnato nel solito film da anni ed anni, uno spaccacuori disastrato e molto anonimo, il guardiano di un museo “animato”. Con “Grrenberg”, recensito di recente, il salto di qualità. In molti film, è l’outsider, il nerd, senza la fama definita e senza la medesima consapevolezza di esserlo. Zoolander è un soggetto di cui l’attore è anche regista.
Forse il miglior Stiller. Sicuramente lontano dallo stereotipo dell’ultimo film che porta il suo nome con il credit director, “Tropic Thunder”. Non molto alto, capelli a spazzola, vestiti leopardati, tigrati, zebrati, fascia attorno alla zucca ed espressioni molto “baby” succulente e lolitiana, la Blue Steel, la Ferrari, la Tigre, la grandiosa Magnum, in grado di bloccare la stella ninja, creando uno scudo così possente che quello spaziale, a confronto, sembra lesso. Movenze fotocopiate e divenute emblema di un “way of living”, tuttora. Più che varie espressioni, un’unica: la bocca arricciata, lo sguardo nell’obiettivo, le guance, volutamente, sgonfiate. Stiller è un modello, uno scambista (di consonanti), una mezza calzetta, uno che ha ripetuto, molte volte, la seconda elementare e che, già da piccino, aveva nel cucchiaio della mensa compreso della sua propensione naturale per essere pagati solo perchè belli, “belli in modo assurdo”. Eppure ha un successo indomabile, placato dall’ascesa di Owen Wilson biondo, meditativo, sportivo, hippy quanto basta, integrato nella passerella, più per che capriccio che per reale volontà. Riuscirà a strapparsi le mutande di dosso, in contatto, forse, da sciamano, con una realtà extrasensoriale, non calando giù i suoi jeans strettissimi. La trama non è innocua, l’industria della moda sarebbe responsabile di tutti gli omicidi politici degli ultimi duecento anni. Rilettura arguta. Due scene: una fornitura di benzina, molto sessuale, e mortuaria e la citazione delle scimmie e dell’ossi dell’Odissea di Kubrick, visiva e filosofica. “Relax”, dei Frankie Goes To Hollywood, e guarda. “Sono bulimica. E allora leggi nel pensiero?!”
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