A quanto pare, se mentre un tempo le femministe venivano accusate di essere delle ‘poco di buono-zitelle inacidite-povere isteriche’, oggi pare renda di più accusare le femministe di ‘moralismo’.
Di ciò si è occupata anche Lea Melandri (in La 27esima Ora) in un bel post di poco tempo fa, mostrando come quello che noi credavamo fosse un problema solo nostro, sia lo specchio di una situazione diffusa.
Nell’ipotesi migliore, l’accusa di moralismo non può che essere il frutto di un fraintendimento generale di ciò che scriviamo, delle idee che intendiamo difendere; nell’ipotesi peggiore si tratta dei soliti mezzi con cui le persone che dissentono, tentano di delegittimare il discorso, chiudendo le porte a qualunque confronto.
Ci pare quindi essenziale mettere in chiaro alcuni punti, per dimostrare come l’ ‘accusa’ mossa non abbia alcun fondamento.
La critica che muoviamo nei confronti dell’immagine della donna veicolata dai media non ha a che fare con la difesa di un qualche tipo di morale che faccia appello all’idea di preservare la ‘dignità’ delle donne (qui un post). Non è per una questione di morale violata che critichiamo (e in questo il documentario di Lorella Zanardo è stato per noi un punto di riferimento essenziale) il modo in cui la donna viene mostrata in tv e nelle pubblicità. E’ piuttosto sulla relazione uomo-donna che emerge da quell’immagine, relazione asimmetrica, che intendiamo agire la nostra critica. Il problema non è che ci siano donne smutandate in tv. Se tutti lo fossero andrebbe benissimo. Il problema sarebbe allora circoscritto alla qualità della tv, al senso che essa dovrebbe avere.
Il problema cioè non è la difesa di una certa morale sessuale, ma il significato sociale di un’immagine dei rapporti uomo-donna in cui il secondo dei termini si costruisce a partire dall’immaginario del primo.
Abbiamo spesso parlato anche di come il modo in cui viene intesa la bellezza femminile, ai nostri giorni, possa essere il riflesso di un tentativo di costringere le donne ad abitudini dannose. Ciò che è in questione non è il fatto che ci sia un’ immagine di bellezza definito. C’è sempre stato. Il problema è come quel modello sia cambiato secondo dei canoni che, a nostro avviso, tendono a danneggiare, in senso davvero concreto, i corpi di molte donne. L’eccessiva magrezza, il ricorso alla chirurgia estetica per correggere presunti difetti o per cancellare le rughe, un’ idea di femminilità che agisce sul piano della moda come limitazione concreta, fisica, dei movimenti delle donne, della loro espressione. É moralismo questo? É moralismo condannare un’ immagine di bellezza che se riduce le giovani ad un costante controllo del peso, porta le meno giovani a rifiutare il passare del tempo in modo ossessivo (e in un modo che non vale mai per gli uomini)? E’ moralismo mostrare come esso danneggi le donne? Non si tratta di cancellare l’ideale di bellezza, ma di immaginare dei modelli che siano più adatti al corpo e alle sue esigenze: mangiare, muoversi…un’immagine di bellezza che sia più compatibile con la ‘natura’ dei corpi.
In questa prospettiva non viene vagheggiata una concezione di libertà come dato assoluto, per cui ci sarebbero donne libere e donne non libere, alcune che non sarebbero influenzate da quell’immaginario, altre sì, donne brave e donne cattive. Tutte/i noi siamo influenzate dalle immagini che la società ci impone, e lo siamo al punto che queste sono parte di noi, parte di ciò che pensiamo, desideriamo.
Ciò che vorremmo è che le inevitabili costrizioni sociali non fossero costruite a partire dall’asimmetria tra maschile e femminile, asimmetria che costringesse le donne, in particolare, entro un modello unico, che riproduce solo e soltanto la donna come corpo legato alla riproduzione/seduzione/piacere altrui (come dimenticare le pagine della De Beauvoir sul corpo alienato, il corpo della donna che è sempre in funzione di altro o di altri, e mai soltanto suo), che non rispondessero cioè all’esigenza di prevaricazione di un genere sull’altro. E’ moralismo questo? E’ negare che il sociale ci influenzi? E’ farsi paladini di una fantomatica idea di libertà assoluta? Non credo proprio.
A proposito delle critiche che abbiamo fatto, ci è stato detto che l’idea di libertà è anch’essa un’immagine del sociale. Ciò che noi siamo sarebbe solo un prodotto della società per cui discutere di una liberazione dalle costrizioni sociali non sarebbe altro che un paradosso. Oltre che l’evidente tentativo che viene fatto con queste assunzioni di legittimare lo status quo, si pongono a partire da questa assunzione una serie di problemi insuperabili. Se noi fossimo esclusivamente un prodotto della società, come mai questo non ci ha resi uguali gli uni agli altri? Cosa ci rende, e ci ha resi, persone diverse? Si potrebbe obiettare che è la nostra storia personale, l’influenza sociale della famiglia in cui siamo cresciuti a distinguerci. Ma ciò non sta in piedi. Mia madre, se fosse solo un prodotto sociale, sarebbe uguale a tutte le altre madri, e così mio padre, mio nonno e così via.
Il secondo problema della tesi di chi, per difendere lo status quo nega l’idea di libertà, è il mutamento che, nel corso della storia, si è prodotto nel sociale. Quale sarebbe il principio del mutamento se noi non fossimo altro che specchi di ciò che viene dall’esterno? Se non si potesse immaginare uno scarto tra il nostro essere un prodotto sociale e noi, al di là di questo?
E’ a partire da questo scarto che si producono dei mutamenti sociali.
Ed è a partire da qui che quella che noi difendiamo non è un’idea assoluta di libertà ma piuttosto un’ idea ‘relativa’. Quell’idea per cui di fronte alla domanda: “siamo più libere in una società che non vede le donne che abortiscono come assassine?” ci fa rispondere si. Siamo più libere in una società che condanna la violenza all’interno della mura domestiche? Si lo siamo. Ma siamo davvero più libere se il nostro io sociale, quello che ‘in parte’ siamo, non fa altro che riflettere una struttura delle relazioni sociali che va a discapito delle donne? Potremmo senz’altro essere più libere se non fosse così. E affermare ciò non ha niente a che fare con il moralismo.
Finisco con questa citazione dal post della Melandri:
“«Corpi liberati o corpi prostituiti?”, mi sono chiesta provocatoriamente quando anni fa è esploso il dibattito su sesso/denaro/potere».
Forse né l’uno né l’altro. Poter scegliere non è automaticamente essere libere di scostarsi da modelli profondamente interiorizzati e fatti propri; usare il corpo, con cui sono state identificate, è stata per secoli una via obbligata di sopravvivenza per le donne, per cui non c’è da meravigliarsi se oggi pensano invece di ricavarne un beneficio. Caso mai possiamo chiederci se ricalcare ruoli noti, pur capovolti e rivalutati, aiuta a riconoscere gli ostacoli che le donne ancora incontrano quando tentano di esistere come persone e non solo come incarnazione dell’immaginario maschile.
In tutto questo non c’entra la morale ma quel rapporto sessualità e politica che la cultura maschile ancora esita ad affrontare per non dover mettere in discussione la basi stesse su cui si è costruita la civiltà che è arrivata fino a noi”.