Probabilmente il motivo del mio malverso e rigetto di qualunque proposta (politica, sociale, artistica) di origine partenopea non è da rinvenire nel sentimento campanilistico pre-borbonico caratterizzante il siciliano classico. In altre parole, della diatriba sulla supremazia tra Palermo e Napoli mi importa poco e sarebbe comunque più plausibile una mia tendenza di supporto all’area Aretusea (il terzo litigante che avrebbe potuto avvantaggiarsi?). Quello che invece mi rende insopportabile il napoletanismo del terzo millennio è l’odiosa situazione stantia della manifestazione esteriore che da tale luogo geografico promana. Sarebbe piaciuta a Totò questa Napoli? La si può amare incondizionatamente solo per ciò che rappresenta sul piano delle idee? I problemi di Napoli non sono certamente di oggi e neanche di ieri. I vizi di oggi, parliamoci chiaro, non sono altro che le virtù di ieri. Eppure c’è stata una fase storica a me contemporanea in cui sembrava vedersi una via d’uscita. Una via poi del tutto abbandonata successivamente. Ecco cosa rimprovero ai napoletani. Il mio rigetto verso la loro cultura così si restringe al solo elemento culturale, e scusate l’uso improprio delle parole. Gli artisti – quelli veri – declinavano nel corso degli anni mentre le generazioni coeve stavano a guardarli.
Pino Daniele è sempre stato uno di quegli artisti impegnati per la sua città. Tuttavia non si può negare che dalla fase “incazzata” si è ormai passati alla quasi “compiacente”. Saranno stati i successi, o i problemi di salute, non saprei dire di preciso, ma fatto sta che la sua voce (quella fisica, materiale) si è indebolita parallelamente al messaggio che voleva inviare. Lo ritengo incolpevole, non volontariamente succube di questa autocompiacenza già menzionata, eppure in qualche modo parte di essa. Questo signore “stiloso” e compassato non è certo il rabelaisiano personaggio che pisciava sul retro copertina di “nero a metà”. S’invecchia, dirà qualcuno. Mah, sono dubbioso sulle difese di tipo naturalistico (iè la natura e non ci possiamo fare niente). Poi, del resto, io non ho voce in capitolo per dire “questo” o “altro”, sono solo opinioni, probabilmente sbagliate.
Lo zio Pino inizia la sua carriera da solista con Terra Mia, del ’77. L’incipt affidato a Napule è sorprende ancora oggi per raffinatezza dei suoni. Rappresenta comunque l’ultimo respiro di speranza di una Città non ancora definitivamente rassegnata ai gangli del suo mal vivere. Arbore vede subito nel grande artista, soprattutto grazie alla bruciante di protesta Na tazzulella ‘e cafè. Per il resto, nel corso dell’album, l’elemento partenopeo si sposa spesso con il blues, chiarendo sin da subito le intenzioni di Daniele sul prosieguo della sua carriera.
L’innesto di James Senese nel successivo omonimo (1979) serve a limare certe ruvidezze del primo lavoro, virando più verso suoni jazzy e latin. La miscela è pronta: Je Sto Vicino a Te è forse la miglior rappresentante dell’album, calda e dal respiro internazionale. Vitolo alle tastiere lusinga certi suoni ormai quasi fuori moda nel penoso contesto del pop a loro contemporaneo e che verrà. Ma parlavo di Senese, il suono potente del suo imperioso sax sferza le onde di Chi tene ‘o mare in uno sfogo, un urlo pregno di volontà di rivalsa per il popolo partenopeo. La protesta sociale più dura ritorna con l’ormai abusata Je So Pazzo. Ma la chicca è Uè Man, strepitoso blues cantato in anglo-campano che narra di un contratto di locazione di tipo meretriceo, precisamente per voce di un addetto alle vendite.
Il capolavoro arriva l’anno dopo: Nero a Metà (1980), disco manifesto della poetica di Pino Daniele. Un’armonica a bocca di tipo wonderiano apre I say i sto cca, brano potente e incazzato dalle influenze soul-blues. Personalmente uno dei miei pezzi preferiti. Musica, musica è forse uno dei primi brani a concedere qualcosa alla lingua italiana; la ballad Quanno chiove un classico tanto quanto la storica A me me piace o’blues; il potente blues disperato di Puozze passà nu guaio fa il paio con quello più divertente di Nun me scuccià, esaltando le qualità chitarristiche di Pino; In A Testa in giù ritorna a Stevie Wonder e ad un certo tipo di funky-soul estremamente allegro; nella bella E so cuntento ‘e sta’, in particolare nel suono della chitarra, appare chiaramente uno degli elementi di influenza più forti nel suond di Pino: Pat Metheny.
Daniele si ripete nel 1981 con il bellissimo disco Vai mo’. Anche questo un album fornito di classici eccezionali, si va dal funk di Yes I know My Way alla fusion di Viento e Terra. Gli altri pezzi non hanno nulla da invidiare, in un mix di classe, potenza, poesia e tecnica, si susseguono Che te ne fotte, Have you seen my shoes (segnalatissima), ma che ho. Questa è senz’altro la miglior band che accompagna Pino. Oltre ai soliti Rino Zurzolo al basso e James Senese ai fiati si aggiungono Joe Amoruso alle tastiere, Tullio De Piscopo e Tony Esposito alle pelli.
I suoni si vanno alleggerendo, Pino è meno cattivo, anche un po’ meno napoletano, qualcosa sta cambiando, tuttavia Bella ‘mbriana, del 1982, è ancora un gran bell’album, forse il migliore. Al basso c’è il grande Alphonso Johnson, e al sax la straordinaria partecipazione di Wayne Shorter, entrambi direttamente dai Weahter Report. Tutta ‘nata storia è bellissima, intro di piano e basso grossissimo per uno dei migliori pezzi di fusion italiana. Pino poi, alla chitarra, è sempre grandissimo. La title track stessa è emozionante nel suo incedere mediterraneo. Tarumbò, un blues metropolitano; I Got The blues segue i fortunati precedenti all’insegna dell’inglese maccheronico; Mo Basta è ancora pungente come un tempo; Ma Che Mania, un gran pezzo funky da infarto, con un assolo Metheniano. Spesso sarà venuto di pensare anche ad un altro chitarrista storico del world rock, ma bisogna aspettare Toledo per poterlo dichiarare pienamente. Il pezzo è poi impreziosito dalle mitiche impennate di Shorter (buon vecchio amico del misterioso latineggiante chitarrista in questione). Infine il latin più easy di E po che fa addolcisce gli animi. Jazz, rock, blues, world sono le coordinate di questo magnifico disco.
Nel 1984, a fare il sunto della carriera, esce la divina raccolta Sciò live. Ritornano per l’occasione, nelle varie date: Zurzolo, Amoruso e Tony Esposito; partecipano pezzi grossi come Nanà Vasconcelos, Gato Barbieri e Bob Berg. È il canto del cigno: Musicante (1984) è solo sufficiente, Ferryboat (1987) forse anche meno, il resto sfuma sino alla noia.