Magazine Pari Opportunità
In questo post accennerò ad alcune cose dette nel primo dei due incontri da me seguiti, il giorno 1 marzo, in cui Oria Gargano e Francesca De Masi hanno parlato di intervento nell'ambito della violenza sulle donne, in particolare nella coppia, e della tratta, facendo un confronto tra le due situazioni che per me è stato davvero illuminante. Sono emersi importanti aspetti che accomunano le due esperienze, sia sul piano del vissuto della donna che sul piano di alcune problematicità nel lavoro dei servizi sociali.
La cosa che mi ha colpita più di tutto è stato proprio il fatto che in entrambi i casi anche chi opera nell'accoglienza e nel soccorso spesso tende ad aspettarsi troppo dalle donne. Si tende ad avanzare implicitamente la presunzione che la donna debba raccontare tutta la sua esperienza, senza omissioni e bugie o che debba in qualche modo manifestare un'intenzione di uscire dalla sua situazione, che sia lasciare il marito maltrattante o denunciare il suo sfruttatore. Non si fa poi abbastanza attenzione ai sintomi e segnali rilevatori di un vissuto di violenza che, ad esempio, per le donne che vivono con partner maltrattanti, possono essere anche di tipo psicosomatico e possono essere confusi con altro, specie quando non si ha una formazione specifica che permette di riconoscerli (per esempio tra i medici di base). Non si tiene poi conto - per quanto riguarda le aspettative sulla determinazione della donna a uscire dal vissuto di violenza - che l'esperienza di una donna con marito violento non è fatta solo di ombre, ma anche di luci, di momenti di false riconciliazioni e manifestazioni di affetto da parte del soggetto maltrattante, che ben si spiegano all'interno del meccanismo della spirale della violenza. Con la precisazione che quest'ultima risulta comunque troppo schematica e approssimativa e che l'esperienza singola non vada mai ridotta ad uno schema preconfezionato, rischiando di schiacciare la soggettività della donna e la sua progettualità individuale anche all'interno di un rapporto violento.E' proprio questo che, secondo Oria Gargano di Be free, invece si tende spesso a fare, anche per le donne oggetto di tratta. Aspettarsi una sorta di "vittima preconfezionata" dai nostri pregiudizi, in una visione che tende ad essere anche offensiva, nel non rispettare la complessità dei vissuti. Per le vittime di tratta sono vissuti davvero terribili, in cui spesso si tende ad attuare una rimozione selettiva - meccanismo del tutto naturale in situazioni di estremo pericolo - a fronte della quale ad esempio le forze dell'ordine pretendono invece dovizia di particolari per poter accogliere una denuncia che altrimenti viene archiviata. E qui si dovrebbe aprire una parentesi sulla totale impreparazione che regna sovrana in quest'ultimo campo in cui mancano persino interpreti e mediatori culturali, preparazione che pure viene richiesta da tutti i protocolli internazionali antitratta. Su ciò che avviene nei CIE poi non mi dilungo, rimandando al post che ho linkato anche sopra e a questo blog.Non si capisce perché una persona in situazione di grave difficoltà e che ha subito tanti abusi, dovrebbe condividere i dettagli della sua sofferenza, raccontare tutta la sua esperienza, senza omissioni e/o bugie. Specie se non si è ancora stabilito un rapporto di fiducia fatto innanzitutto di pieno rispetto, che dosi sapientemente empatia e percezione dell'alterità, non schiacciando la donne nel ruolo di vittima né giudicando. Innanzitutto c'è da tener conto del fatto che, se per ogni donna è difficile e per niente scontato definirsi vittima di violenza (ad esempio da parte del marito, l'uomo che si è scelto di sposare) così diventa difficilissimo per una vittima di tratta definirsi tale e raccontarsi, innanzitutto date le minacce che si subiscono dagli sfruttatori mafiosi, rivolte anche alle famiglie.
Nella tratta, poi, la tendenza a fingere per poter sopravvivere, a raccontare bugie, a sviluppare modalità seduttive di relazione è assolutamente in linea con il tipo di esperienze vissute, insieme a una forma di resilienza che porta a "spegnere il cervello" e a un grande senso si svalutazione di sé, che rende difficile anche solo pensare che qualcuno voglia porgerti un aiuto disinteressato e che ci si possa fidare davvero. Si può anche sviluppare un rapporto ambivalente con lo sfruttatore simile a quello di una donna con partner maltrattante, fatto anche di momenti di "normalità", a cui in ogni situazione, si cerca comunque di accedere. E' pregiudiziale e giudicante aspettarsi una persona "in catene". Non è un caso che anche sul piano legislativo il consenso della vittima sia irrilevante per il reato di tratta, questo non cancella di certo la violenza di quello che è definito come un crimine contro l'umanità. Ultima affinità tra violenza sulle donne nella coppia e tratta - ma non ultima in ordine di importanza - il contesto culturale giustificativo in cui si muovono entrambe le situazioni, che rende ancora più difficile la posizione di chi subisce violenza e il riconoscimento di essa. Per tirare le somme, dovremmo riflettere tutti, non solo gli operatori, sul fatto che siamo noi a dover andare incontro a chi ha subìto violenza, aprendo loro una porta e non pretendere che siano loro a venirci incontro soddisfando le nostre aspettative.
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