Subire il sistema in cambio di una calda minestra

Creato il 30 settembre 2014 da Ufficiostampafedercontribuenti @Federcontribuen
La riforma del mondo del lavoro resta un tema trattato a pelo d’acqua dal governo e dai sindacati e quando si dovrebbe afferrare il toro per le corna si preferisce fare la passerella nell’arena sventolando un utile drappo rosso mentre la bestia riposa ben nascosta agli occhi del pubblico. Inizia così la lettera di Edi Morini, giornalista e segretaria in uno studio medico per arrotondare lo stipendio, ” chiedo venga fatta chiarezza sulla vicenda che mi riguarda, soprattutto in merito alla causa di lavoro e sul giudice che da anni mi perseguita a suon di querele”. I primi due giudici le danno ragione ma vengono rimossi, il terzo annulla tutto e la querela tre volte.    Diciamolo subito, il torto di Edi e di tanti come lei è l’aver accettato di lavorare in nero, diciamo anche che questa condizione è una diretta conseguenza di quella politica mai concreta ed incisiva. Pretendere i diritti sul posto di lavoro quando sindacati e governi ti sbeffeggiano quotidianamente diventa complicato e allora ci si accontenta del tozzo di pane e di una scodella di minestra. Edi è una vittima del sistema, di quel sistema contorto e lobbistico dove sempre i pesci grandi divorano quelli piccoli. Il tutto avviene a Pinerolo, 36 mila anime, dove un illustre professionista diventa il potente, dove l’intera comunità si prostra al volto noto per convenienza e cattiva cultura. ”Ho iniziato a lavorare il 9 maggio 1977 presso un medico e sono stata licenziata nel 2008. Improvvisamente e senza una ragione, a parte il mobbing subito. Ero la segretaria di un noto ginecologo nella zona, tutt’ora in esercizio. Per 31 anni abbiamo consegnato le regolari ricevute alle signore, molte di queste venivano buttate non avendo il medico intenzione di registrarle. Tali copie sono tuttora negli studi degli avvocati che mi hanno assistita e che non hanno voluto produrle come prova del mio lavoro, regolarmente svolto per molte più ore di quelle che mi venivano retribuite. La storia della causa di lavoro che si è trasformata in un labirinto legale merita particolare attenzione. Va precisato che svolgevo dal 1989 un doppio lavoro: al mattino e la sera dopo le 21 lavoravo come giornalista presso la testata “Monviso”, settimanale locale. Ho impugnato il licenziamento del dottore il 4 novembre 2008 tramite l’avvocato della Cgil. Da subito ho ribadito che intendevo mediare, conciliare, risolvere, non guerreggiare. Il 16 febbraio 2009 dovevamo comparire presso il Tribunale del Lavoro a Torino. Le trattative si arenano immediatamente. I miei ammortizzatori sociali finiscono nel settembre 2009. Nel 2008 era già possibile richiedere la cassa integrazione per il dipendente unico di una piccola ditta, ma il dottore per il quale lavoravo non ha voluto, temeva un controllo fiscale. La causa non va avanti, i mii legali sembrano fermi a chissà quale catena. Una mia testimone non si presenterà in aula, mi spiegherà che è stata distolta da un’avvocatessa, amica del medico. Nessun complotto: a Pinerolo esiste un solo ospedale e c’era un solo tribunale, ora chiuso. Nessun cittadino ha interesse a inimicarsi i potenti locali: è umano. Il 20 gennaio 2010 siamo in tribunale. Il giudice Giuseppe Salerno mi riconosce subito la qualifica superiore di terza categoria super A e propone un accordo di 15mila euro. Rifiuto perché, dai conti rifatti ben tre volte, mi spetta ben di più. Il valore di causa è di centomila euro. Mi dava 700 euro mensili dopo trentun anni e mezzo, una cifra che ricava netta in un pomeriggio di lavoro. Mi ritrovo disoccupata, ultracinquantenne e con notevoli crucci. Gli avversari hanno basato le loro argomentazioni sul fatto che, quando lavoravo dal medico lavoravo anche altrove: è vero, dal 1989 al febbraio 2011 ho lavorato in nero (non per mia scelta) come giornalista pubblicista: ci andavo al mattino o la sera tardi quando uscivo dallo studio medico. In base al diritto che ogni cittadino\a ha di protestare per le ingiustizie subite, e al diritto di cronaca e di critica riconosciuto ai giornalisti, ho protestato tramite il blog “Denunce in rete” e con ogni mezzo disponibile mediatico e cartaceo contro una sentenza del 28 ottobre 2011, che ritengo profondamente ingiusta. L’ avvocato che male mi ha seguita e tutelata oltre ad avermi fatto perdere ha anche avvisato il giudice per incoraggiarlo personalmente a querelarmi. Dopo la sconfitta in appello del 19 giugno 2012 reclamano altri 9000 euro di spese legali perché avendo perso tocca a me pagare. Chiaramente non possiedo questa cifra e rischio il pignoramento dell’unica abitazione, di cui possiedo la metà: un alloggio di quarant’anni, di 72 mq. Mentre sto scrivendo, siamo in attesa di una sentenza in cassazione: ricorso depositato il 17 novembre 2012. Il tribunale di Pinerolo ha condannato la redazione per cui lavoravo come pubblicista a corrispondermi 192mila euro, hanno replicato di essere nullatenenti, storia chiusa. La mia vita sociale è stata compromessa, se non azzerata. In un ambiente decisamente ristretto, sono difficilmente ricollocabile al lavoro. In seguito alle mie proteste il giudice mi ha querelata per diffamazione. A seguire, in rapidissima successione, due altre querele. Una discussa il 27 marzo, per cui il p.m. ha proposto l’archiviazione, ritenendomi innocente. Non so ancora nulla sulla decisione definitiva. La terza querela viene discussa il 05 giugno 2014. Anche qui il p.m. propone l’archiviazione perchè mi ritiene innocente, ma la controparte si oppone. Una vicenda molto banale che testimonia tuttavia quanto sia arduo per il cittadino comune difendersi e ottenere giustizia, perdendosi in un labirinto di cavilli, malintesi, sconforto. Difendersi dall’accanimento di un magistrato è poi quasi impossibile”.   Edi Morini giornalista pubblicista

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