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Sucker Punch (2011)

Creato il 05 aprile 2011 da Elgraeco @HellGraeco

“Se avete firmato un assegno a parole assicuratevi di poterlo pagare col culo” Wise Man in “Sucker Punch”

Sucker Punch (2011)

Come deve essere considerato il motto del Saggio qui sopra? Ci sono. Un Pork Chop Express aggiornato al III millennio.
Perla di saggezza dispensata mentre si parla d’altro, si affida una missione a un branco di sgallettate che devono andare a recuperare la Fiammo del Drago, ma che, con tutto il rispetto, finiscono per sembrare delle baldracche in visita alla soldataglia.
In quanto tale, come P.C.E., non ha un briciolo di fascino, né di divertimento di quelli del vecchio Jack Burton.
Ma è la filosofia di Zack Snyder e del suo Sucker Punch.
Seconda caratteristica indicativa del modo in cui vengono considerate le cose in questo film è il calcione che Baby Doll (!) (Emily Browning) si becca dal gigantesco samurai armato di alabarda spaziale. Per farvi un’idea, la pianta dello stivale del guerriero è grande quanto la protagonista e quest’ultima se lo becca in pieno, tanto da farle fare un volo all’indietro di buoni trecento metri, sfondare un portone con rinforzi in ferro battuto e un paio di colonne di un tempio buddista. Ma, ehi, Baby Doll si rialza e non solo non ha un graffio, non s’è neppure sporcata.
Ora, quello che salva Sucker Punch dall’essere il film più cazzaro della storia del cinema è che trattasi di fantasia, o meglio, per dirla in modo più intellettualoide, metateatro. Ebbene sì.

Sucker Punch (2011)

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Io, Hell, nei miei sogni mi arrampico su grattacieli senza affanno, corro senza stancarmi, precipito da migliaia di metri e tutto quello che mi capita è, al più, un sobbalzo, sono molto, molto, molto più potente di Rocco Siffredi ed esco con Emma Stone.
Ma sono solo sogni, non Resident Evil Afterlife. Nei sogni si può, si deve pretendere di essere un videogioco vivente. E nessuno può rompere i coglioni su questo punto, tirando in ballo il realismo e la profondità dei personaggioni femminili.
Ma torniamo al metateatro che, pare strano, ma è il motivo fondante questo film. Baby Doll viene internata in un manicomio. Tralasciamo il perché. In questa struttura viene applicato un metodo di cura delle malattie mentali basato sulla messinscena dei disturbi e delle fobie delle pazienti (trattasi di manicomio femminile), in modo da favorire la catarsi e la conseguente guarigione delle stesse.
Baby Doll si reinventa due volte.
La prima trasformando il manicomio in una scuola di danza misto bordello di lusso, nella quale le ragazze, ospiti ma soggiogate a una specie di mafiosetto locale, danzano, imparano l’arte e la mettono da parte per il sollazzo dei clienti.
La seconda, trasformando la suddetta danza psico-sessuale in un videogame basato su livelli, quest e mostro finale.
Dicono che Baby Doll danzi così bene da travolgere col delirio estatico tutti coloro che assistono alle sue movenze. Uhm… peccato che non si veda.

Sucker Punch (2011)

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Siamo nel metateatro, quindi. Roba figa. O forse no. Forse è solo la scusa. Passi il samurai armato di Minigun, e il drago e il cuoco bavoso e il sindaco che pare un miscuglio interessante tra Scorsese, Romero e Onassis. È che sfugge il punto della messinscena.
Vorrebbe essere estasi, ma è solo estetica. Per di più ridondante. Talmente tanto da rasentare il delirio ormonale di un adolescente in calore che, però, non ha ben chiaro il significato della parola sesso. Questo perché ogni singola inquadratura, lontana anni luce dall’essere sensuale (protagoniste tutte maggiorenni, quindi è lecito porsi il problema) non finisce con l’essere neppure sessuale, ma un gioco di ruolo che non profuma, né odora. Le protagoniste non sudano, hanno la barra dell’energia vitale, forse, e ne consumano di tanto in tanto, ricaricandosi fino alla prossima avventura. Ne hanno in serbo cinque in totale.
Da adolescente sarei andato matto per un film così? Sinceramente non lo so.
Forse solo dal lato estetico, per l’appunto. Pur lasciando i suddetti ormoni preda di una confusione legittima, o del cellophane.
Perché di pathos, anche nelle scene che avrebbero dovuto farne abuso, non ce n’è traccia.

Sucker Punch (2011)

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Confezione asettica, dallo stile impeccabile. Emily Browning vestita alla marinaretta con katana e coppia di pistole e sguardo da cerbiatta è difficile dimenticarsela. E infatti credo sia l’unica immagine chiara che ci si rammenta, dopo i 109 minuti di Sucker Punch. Immagine lolicon, che pretende di essere forte e cazzuta e finisce per diventare cosa?
In tutta sincerità, non ne ho idea. Quello che so è che l’icona di una protagonista femminile forte, profonda e magnifica non si troverà in film di questo genere. Ma, è importante, non è neanche lecito aspettarsela. Parliamoci chiaro, uno non cerca Sigourney Weaver, la sua Ripley, in un film che sembra essere un quadro iperrealista fantasy e steam in movimento.
L’estetica pura è luce, ombra e colore, la bellezza classica e statica che non scava dentro al quadro per vederci ciò che non può esistere.
Ragion per cui, non vedo come si possa polemizzare sul presunto messaggio fornito da un film che di messaggi non ne può davvero dare. Perché talmente impossibile è ogni dettaglio che impossibile è il sottotesto. Non c’è. Inutile sforzarsi a cercarlo. Non c’è la storia e non c’è niente. Solo un film fatto per essere visto. Non per essere capito e men che mai interpretato.
E se può dar fastidio il modo in cui la donna è in esso rappresentata, io che sono un ometto (citando Elio) cosa dovrei dire? L’uomo in questo film è: a) il cuoco ciccione e bavoso che stupra le ragazzine nella dispensa; b) il politico ruffiano tutto soldi e spogliarelli; c) il fighetto sadico e violento che maltratta le donne non riuscendo a farsi amare da loro; c) il maniaco che prima le lobotomizza e poi ne abusa.
Cioè, in tutta sincerità, secondo voi chi ne esce peggio? L’uomo o la donna?
È come dicevo all’inizio di questo post: “Se avete firmato un assegno a parole assicuratevi di poterlo pagare col culo”. Detto ricordato da un uomo maturo a cinque ragazzine. È la modernità? Forse. Ma non è detto che debba piacerci per forza.

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