di Michele Marsonet. Chiarisco, innanzitutto, che con l’espressione “fondamenti della logica formale” intendo in questo contesto fondamenti filosofici. In altri termini, intendo esplicitare le principali presupposizioni di tipo filosofico che hanno condotto allo sviluppo della logica formale dei nostri giorni. Si tratta di un tema di grande interesse, giacché non sempre i logici (e i filosofi interessati alla logica) riflettono a sufficienza su tali presupposti. Con ciò intendo dire che, assai spesso, la logica viene considerata alla stregua di disciplina del tutto “neutrale” e indipendente dal punto di vista di coloro che ne costruiscono i sistemi. Appare invece più corretto storicizzare la logica standard, vedendola come uno fra molti sistemi possibili.
Si può allora notare che oggi esiste una pluralità di sistemi logici che si differenziano per vari motivi dalla logica classica. Essi vengono definiti “logiche non-classiche” (o non-standard) proprio per sottolineare la loro diversità rispetto a quest’ultima. Che cosa significa, tuttavia, “diversità” in questo caso? In realtà, per rispondere a tale domanda occorre comprendere le motivazioni che spingono gli studiosi a costruire sistemi logici non-classici. Talvolta tali motivazioni possono essere di tipo puramente formale; assai più spesso, tuttavia, la costruzione di un sistema non-standard è dovuta alla convinzione che la logica classica sia o troppo ristretta per esprimere certe caratteristiche del linguaggio ordinario, oppure addirittura “errata”.
Se infatti prendiamo in considerazione due note logiche non-classiche come quelle modali e polivalenti, si può constatare che tanto il logico modale quanto quello polivalente propongono di modificare la logica classica, e tuttavia la modificazione richiesta sarà, nei due casi, di natura diversa. Il logico polivalente sostiene che i suoi sistemi sono alternativi rispetto a quelli classici (nel senso che essi dovrebbero essere adottati al loro posto). Il logico modale, invece, ha pretese più modeste. Egli si limita ad affermare che il suo sistema costituisce una estensione della logica classica (con il che ammette che entrambi possono essere utilizzati). La conseguenza che discende da ciò è piuttosto ovvia. Il logico polivalente tende a considerare errata la logica classica sotto certi aspetti (perché essa include asserzioni che non sono vere), mentre il logico modale la giudica semplicemente inadeguata (perché essa non include delle asserzioni vere). Ecco quindi che la logica polivalente diventa un’alternativa rispetto a quella classica (e cioè una logica “deviante” o rivale rispetto ad essa), mentre quella modale, dal canto suo, ne costituisce semplicemente una estensione (o completamento). Il risultato è che l’uso di una logica rivale è per certi aspetti incompatibile con quello della logica classica, mentre l’uso di una sua estensione è del tutto compatibile con essa.
E’ possibile poi suddividere le posizioni dei vari studiosi in riferimento alla presenza di sistemi non-standard nel modo seguente: (i) i realisti, i quali ritengono che la logica possa essere verificata o falsificata in termini assoluti, ragion per cui vi sono sistemi logici giusti e sbagliati. (ii) i pragmatisti, secondo i quali la scelta di un sistema logico piuttosto che un altro è una questione di convenienza, praticità ed economia, per cui l’adeguatezza di un sistema di logica deve essere giudicata di volta in volta. (iii) e infine coloro che non accettano la presenza di sistemi non-standard, ritenendo che la stessa idea di costruire una logica non-classica sia errata (è questo, ad esempio, il caso di Willard V. Quine).
Si pone a questo punto il problema della interpretazione dei sistemi non-classici. E qui le posizioni si differenziano in modo netto. Basti dire che, secondo Quine, l’incompatibilità tra logica classica e i sistemi non-standard che vengono giudicati a essa alternativi è soltanto apparente; secondo il filosofo americano, infatti, tale incompatibilità può essere spiegata come risultato di un mutamento del significato attribuito alle costanti logiche (e cioè i connettivi). Basta tuttavia rammentare due fatti che rivestono una grande importanza. In primo luogo lo stesso Quine, nel suo celebre saggio “Due dogmi dell’empirismo”, ha esplicitamente difeso la tesi che anche la logica, al pari di qualsiasi altra disciplina scientifica, è in linea di principio rivedibile e modificabile (dal che segue che, sempre in linea di principio, la costruzione di sistemi in qualche modo diversi dalla logica classica è del tutto legittima). In secondo luogo, le obiezioni quineane servono a rammentarci che il dibattito sul vero significato e sulla reale utilità delle logiche non-standard è tuttora aperto e tutt’altro che concluso.
Il quesito fondamentale che occorre affrontare quando si vogliono studiare i rapporti tra logica classica e non-classiche è, comunque, il seguente: esistono delle buone ragioni per modificare – in qualsiasi senso – la logica classica? La stessa presenza di sistemi alternativi, infatti, non è sufficiente a fornire una risposta filosofica a tale domanda, in quanto alcuni studiosi riducono i sistemi non-standard al rango di puri giochi formali (senza interpretazioni plausibili). Fornisco allora un’ulteriore suddivisione che può aiutare a comprendere la posta in gioco. In primo luogo, occorre rilevare che la stessa esistenza di una pluralità di sistemi pone dei problemi circa lo statuto della logica. E tali problemi si manifestano ponendo quesiti di questo tipo: (a) Esiste un solo sistema logico corretto, oppure ve ne sono parecchi? (b) Che cosa significa “corretto” in questo contesto?
Le risposte possibili sono molte ma, a loro volta, possono essere ridotte a tre tipi fondamentali. (1) Monismo: esiste un solo sistema logico corretto. (2) Pluralismo: esiste più di un sistema logico corretto. (3) Strumentalismo: non esiste alcun sistema logico corretto, in quanto la nozione di “correttezza” dipende dallo schema concettuale adottato. Riprendendo la distinzione tra estensioni e deviazioni della logica classica già introdotta in precedenza, notiamo che la logica modale (logica “estesa”) sostiene l’esistenza di verità logiche non rappresentabili nella logica classica; quest’ultima, tuttavia, non è errata, ma semplicemente non abbastanza comprensiva. La logica polivalente (logica “deviante”), invece, sostiene l’esistenza di verità logiche valide nella logica classica, ma non al suo interno; ragion per cui la logica classica risulterebbe in effetti scorretta. Il monismo viene adottato sia da alcuni cultori delle logiche devianti, sia da coloro che sostengono l’esistenza di una sola logica corretta: quella classica. Il pluralismo è l’atteggiamento generalmente adottato dai sostenitori delle logiche estese (ma anche uno studioso convinto della bontà di alcuni sistemi devianti può approvare tale posizione).
Lo strumentalismo, infine, è l’atteggiamento adottato da pragmatisti come John Dewey e da Quine in alcune sue opere. Quella strumentalista è una posizione piuttosto interessante, anche se è stata a lungo minoritaria. Lo strumentalista, in sostanza, afferma che non ha senso parlare di un sistema logico come “corretto” o “scorretto”, in quanto lo si può soltanto definire “più utile”, “più conveniente”, etc. rispetto a un altro sistema. Ne consegue, tra l’altro, che non si può parlare di verità logica e di validità in termini assoluti, bensì di verità logica o di validità relative a un certo sistema. Afferma ad esempio Quine nel già citato “Due dogmi dell’empirismo”: Nessuna proposizione è immune da correzioni. Si è perfino proposto di modificare la legge logica del terzo escluso come un mezzo per semplificare la meccanica quantistica; e che differenza c’è in linea di principio fra una modifica del genere e quella per cui Keplero ha preso il posto di Tolomeo o Einstein quello di Newton o Darwin quello di Aristotele?
Inoltre, la strada che consente di rifiutare la tesi che vi siano enunciati immuni da revisione consiste nel negare che esistano enunciati veri soltanto in virtù del significato delle parole che li compongono. Ciò si ottiene contestando la diffusa opinione secondo la quale vi è una distinzione di base (e irrinunciabile) tra enunciati logico-analitici da un lato, ed enunciati fattuali-sintetici dall’altro. Una simile strategia funziona solo a patto di rinunciare alla classica distinzione analitico/sintetico (e, quindi, alla distinzione a priori/a posteriori). Se tale visione è fondata, significa che le cosiddette “verità necessarie” della logica possono venir falsificate per ragioni di tipo empirico. La stessa logica, insomma, non si pone affatto al di là del raggio d’azione dell’esperienza, ma è una teoria empirica fra tante altre, distinguibile soltanto per la sua grande generalità. Ne consegue che la scelta di un sistema logico piuttosto che un altro dipenderebbe da ragioni di praticità e di potere esplicativo. E’ del tutto evidente che una visione pragmatica della logica come quella che ho appena abbozzato entra immediatamente in contrasto con la concezione assolutista. Secondo quest’ultima, che vanta tuttora molti sostenitori, le leggi logiche sono eterne e immutabili, e possiedono uno speciale statuto ontologico che garantisce la loro certezza.
Tra i sostenitori dell’assolutismo logico troviamo, per esempio, Kant, il quale afferma che tra le scienze giunte allo stadio della completezza deve essere posta proprio la logica. Essa, a suo parere, non ammette più modificazioni in quanto Aristotele ha già detto tutto quanto v’era da dire. Ma è pure importante notare che per Kant la tradizionale logica aristotelica non richiedeva nuove scoperte in quanto essa esprime la forma del pensiero. Tali affermazioni kantiane sono ovviamente datate, in quanto risalgono all’anno 1800. Il filosofo tedesco, infatti, attribuì lo status di verità a priori tanto alle asserzioni della logica aristotelica, quanto a quelle della fisica newtoniana e della geometria euclidea (che ai suoi tempi non avevano rivali). Oggi, in presenza della fisica quantistica e relativistica, delle geometrie non-euclidee e delle stesse logiche non-classiche, diventa assai difficile ragionare in quel modo.
Tuttavia, sarebbe pure scorretto criticare la posizione kantiana soltanto in base a motivazioni storiche. Kant, come già abbiamo notato, considera immune da revisione la logica del suo tempo perché a suo parere essa incarna la “forma del pensiero”. E’ chiaro, dunque, che per Kant lo schema concettuale mediante il quale noi ragioniamo non può che essere unico, mentre oggi si tende ad ammettere una pluralità di schemi concettuali. Per Kant, infatti, le leggi logiche possiedono carattere di assolutezza in quanto costituiscono le “pre-condizioni che ci consentono di ragionare”: proprio per questo esse non si scoprono empiricamente, ma sono discernibili a priori. A questa visione kantiana si contrappone in modo netto William James, secondo il quale possiamo immaginare altri esseri intelligenti sensibili a parametri fisici diversi da quelli importanti per noi. La loro cornice concettuale e categoriale ne risulterebbe grandemente modificata, e li condurrebbe ad adottare una visione del mondo che avrebbe poco a che fare con la nostra. Gli oggetti e gli eventi presenti nel loro modo di esperire il mondo circostante potrebbero differire da quelli per noi usuali in misura tale che i loro predicati avrebbero domini non paragonabili ai nostri. A James dobbiamo le seguenti considerazioni: “se fossimo stati aragoste o api, potrebbe darsi che la nostra organizzazione ci avrebbe condotto a impiegare metodi alquanto differenti per capire le nostre esperienze. Potrebbe anche darsi (non si può negarlo in modo dogmatico) che tali categorie, inimmaginabili per noi oggi, si sarebbero dimostrate utili, tanto quanto quelle che usiamo attualmente”.
Da un punto di vista strettamente formale, dunque, la costruzione delle logiche non-classiche si presenta nitida e precisa. E’ tuttavia evidente che esse suscitano discussioni quando vengono prese in considerazione dal punto di vista filosofico (e, in particolare, da quello gnoseologico). In altri termini, l’esistenza di logiche in qualche misura diverse da quella classica non può essere contestata, in quanto esse sono state effettivamente costruite. E tuttavia, la loro esistenza sembra contraddire l’opinione – ben radicata nel senso comune – secondo la quale la logica è una, ed è valida per tutte le occasioni.
La stessa esistenza dei sistemi di logica non-classica pone quindi problemi filosofici e, al contempo, ha un significato teoretico che trascende gli aspetti puramente tecnici impliciti nella costruzione dei calcoli non-classici. Ad esempio, quando Lukasiewicz contestò il principio aristotelico di bivalenza, e costruì dei sistemi che da esso prescindevano, molti studiosi capirono subito che da tutto ciò si poteva trarre una conclusione sconcertante, e questa conclusione è la seguente: “La verità logica ha – o può avere – un carattere multiforme, e vi possono essere molti modi – e non più uno soltanto, per prenderla in considerazione”.
Sotto molti aspetti, la costruzione di sistemi di logica polivalente rammenta da vicino la costruzione delle geometrie “non-euclidee”. In quel caso, si scoprì l’infondatezza della concezione tradizionale secondo cui esiste soltanto uno – e uno solo – modo di costruire la cornice di riferimento spaziale delle nostre esperienze. In maniera del tutto analoga, fino al secolo scorso si riteneva che un sistema logico coerente dovesse seguire il modello aristotelico, il quale sembrava riflettere le più generali leggi del pensiero. In particolare, si pensava che ogni proposizione potesse – e dovesse – essere soltanto Vera o Falsa. E tuttavia furono creati dei sistemi logici coerenti nel quale il principio di bivalenza non valeva più in certi contesti argomentativi.
Si può affermare, dunque, che nella logica dei nostri giorni esiste realmente il pluralismo. Ci troviamo insomma di fronte a una varietà di sistemi; il che, probabilmente, deriva dal venir meno delle condizioni di assolutezza e dal diffondersi del convenzionalismo in tutti i settori del sapere filosofico. Tuttavia, quando usciamo dall’area specializzata della logica stessa, e tralasciamo l’interesse che per il logico di professione ha la presenza di tanti sistemi più o meno alternativi l’uno all’altro, subito ci si presenta un grande problema, che è poi quello che più interessa al profano: “Come possiamo, al di là dell’interesse specialistico, scegliere tra i vari sistemi senza con ciò presupporre “ab initio” che uno sia superiore agli altri”?
E’ infatti evidente che, dando per scontato il pluralismo, si può arrivare ben presto a posizioni convenzionaliste o relativiste. Il relativista, ad esempio, afferma che la scelta tra i vari sistemi, essendo libera, è del tutto priva di conseguenze. Di qui, però, si può facilmente arrivare all’indifferentismo e – soprattutto – all’irrazionalismo. E’, questa, la strada percorsa nella filosofia della scienza da Feyerabend: se non c’è “il” metodo unitario ipotizzato dai neopositivisti, “tutto va bene” e, allora, non ha davvero senso sforzarsi di pensare in termini razionali. In altre parole: se non c’è qualcosa come la logica “corretta”, e la scelta tra i vari sistemi è arbitraria e riconducibile in ultima analisi alle preferenze personali dei singoli individui, perché mai dovremmo attribuire alla logica un qualsiasi status privilegiato? E perché, inoltre, dovremmo ritenere che un ragionamento logico è superiore a uno illogico? E chi fissa i confini tra logico e illogico?
Di fronte a questo quadro, parecchi pensatori – a differenza di Feyerabend – hanno assunto un atteggiamento difensivo, affermando che in logica il pluralismo è più apparente che reale. Si può allora affermare, ad esempio, che i sistemi polivalenti sono dei meri giochi formali; in questo senso, la vera logica resta comunque quella classica, mentre i cosiddetti sistemi alternativi sono dei “divertimenti” escogitati dai logici stessi. E’ tuttavia ovvio che non era certo questo lo spirito che indusse Lukasiewicz a costruire i suoi sistemi polivalenti, giacché dietro la sua idea si celano delle profonde motivazioni filosofiche. E, a questo punto, occorre anche chiedersi in quale senso esistano dei sistemi logici in competizione tra loro (se effettivamente ve ne sono). In altri termini: “Ci sono delle basi (filosofiche) che giustificano l’esistenza di più logiche?”. E che cosa, eventualmente, le rende tutte sistemi di “logica”? La scelta è interamente arbitraria e, quindi, indifferente, oppure deve basarsi su criteri di stretta preferenza personale? E, a sua volta, tale preferenza si basa su fatti empirici, oppure è di tipo pragmatico?
Noto allora che, affinché due sistemi siano davvero alternativi, occorre che vi sia tra essi un conflitto reale. In altre parole, deve esistere tra essi vera incompatibilità. Se in un sistema si asserisce “p”, e in un altro ci si limita a non affermare “p”, il contrasto è tutto sommato debole. Se invece in un sistema si asserisce “p”, e in un altro si asserisce “non-p”, allora il contrasto è forte. Ciò implica, infatti, che una certa tesi in un sistema è vera, mentre nell’altro è falsa. E ciò rammenta da vicino, ancora una volta, il caso delle geometrie non-euclidee: nella geometria di Euclide vale il famoso quinto postulato euclideo sulle parallele, che non vale invece nella geometria di Riemann. Analogamente, nella logica classica il principio del terzo escluso è una verità logica (sempre vera), mentre in quella polivalente di Lukasiewicz esso vale in certi casi ma non in altri, diventando quindi una semplice proposizione contingente.
Ma, per valutare la reale alternatività dei sistemi logici, possiamo anche ricorrere ad argomentazioni di tipo strumentale. Sistemi diversi possono adottare metodi e procedure differenti per raggiungere lo stesso obiettivo. Non c’è conflitto circa le cose asserite, bensì circa le cose da fare. Per esempio, onde evitare il sorgere di paradossi nel calcolo, un certo sistema può adottare una strategia diversa rispetto a un altro. E’ evidente che, nel caso di un conflitto circa le cose asserite, possiamo chiederci quale tra i due sistemi è corretto, mentre nel caso di un conflitto strumentale una simile domanda non ha molto senso; dobbiamo piuttosto porci un quesito di carattere pragmatico: “qual è il sistema migliore e più efficace per raggiungere l’obiettivo in questione?”. Il problema principale nasce quando ci interroghiamo sulla correttezza dei vari sistemi e, in particolare, quando presupponiamo che esistano degli standard assoluti cui ogni sistema logico deve uniformarsi per essere considerato “corretto”. Continua…
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