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Sui ripensamenti USA circa le “guerre democratiche”

Creato il 17 agosto 2014 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
Muammar_al-Gaddafi_at_the_AU_summitdi Michele Marsonet. Pare infine che, pur con una certa lentezza, si stia facendo strada negli Stati Uniti la consapevolezza dell’assurdità di alcune “guerre democratiche” condotte negli ultimi decenni del secolo scorso e agli inizi di quello da poco iniziato. La tendenza riguarda sia l’opinione pubblica sia alcuni celebri “think tank”, istituti di ricerca privati popolati da analisti, politici ed economici, cui attingono a piene mani Casa Bianca e Dipartimento di Stato per avere pareri circa la condotta della politica estera.

Non deve trarre in inganno l’uscita di Hillary Clinton che si è improvvisamente messa a sparare a zero su Obama per non aver autorizzato l’attacco alla Siria. Tutti hanno capito che si tratta di una tappa della sua già iniziata campagna elettorale, la quale mira a ottenere la massima carica dopo la conclusione del secondo mandato dell’attuale Presidente.

Certo stupisce che la Clinton continui a insistere sulla presenza di presunte forze politiche moderate e filo-occidentali siriane che avrebbero dovuto essere aiutate e armate, trasformandole in un esercito da contrapporre sul campo alle milizie jihadiste. Il Presidente ha subito risposto – piuttosto piccato – che nulla di simile era disponibile. E, anche supponendo che ci fossero, avevano ben poche possibilità di combattere con successo contro forze armate ben addestrate (e appoggiate da Hezbollah) come quelle di Assad, sostenendo al contempo la pressione dei fondamentalisti che monopolizzano la lotta con le truppe regolari.

Il fatto stesso che l’ex Segretario di Stato abbia poi fatto marcia indietro sostenendo che non intende criticare la politica estera dell’attuale amministrazione la dice lunga sulla sua coda di paglia. E’ probabile che questa uscita, invece di favorire la sua battaglia per la presidenza, finisca invece per nuocerle, visto che il carattere strumentale del suo discorso è fin troppo evidente.

Anche per quanto riguarda l’Irak, Obama ha subito fatto notare che, ai tempi dell’intervento diretto americano, Hillary Clinton era tutt’altro che contraria. Votò a favore della proposta di Bush e fu per parecchio tempo entusiasta dei risultati favorevoli ottenuti all’inizio. Ora afferma, in un libro di memorie, che era invece tormentata dai dubbi e che votò a favore con molta riluttanza. Si può crederle? Io penso proprio di no, e non mi sembra che negli Stati Uniti questo pentimento tardivo, e probabilmente poco sincero, le farà guadagnare voti.
Altra musica leggendo una recente intervista a Bruce Riedel, esperto di Medio Oriente e di antiterrorismo, e “senior fellow” della Brookings Insitution, uno dei più famosi tra i “think tank” di cui ho prima parlato. A suo avviso “la presenza di ribelli moderati in Siria è sempre stata un mito”, e questa è una bella stoccata alla Clinton e a tutti coloro che la pensano come lei.

Più importante, tuttavia, è la constatazione che “l’invasione americana del 2003 ha sbriciolato il sistema irakeno. E’ stata la madre di tutti gli errori: l’idea di distruggere un sistema per creare una democrazia liberale è una favola. Crolla l’intero Stato. L’Irak si dividerà in tre: uno Stato curdo, uno sunnita, uno sciita. E’ difficile dire se sia un bene o un male, se corrisponda al progetto dei neocon. Però è così e dovremo abituarci”.

Tralascio i vecchi sospetti che l’intervento USA avesse proprio lo scopo finale di scindere il Paese del dopo-Saddam in tre entità indipendenti. Anche perché Riedel nota giustamente che si è avuta un’implosione piuttosto che una divisione. Ancora più importante, a mio parere, è l’affermazione che l’attacco ha sbriciolato la precedente entità statale, senza che qualcuno si preoccupasse seriamente del “dopo”. Bisognava far fuori – fisicamente – Saddam a ogni costo, e la creazione di una democrazia liberale sarebbe seguita quale conseguenza logica.

E’ un modello che causa disastri, come si è visto – pur con le dovute differenze – nella Libia di Gheddafi e nell’Egitto di Mubarak. I francesi spingevano per applicarlo pure nella Siria di Assad, e per fortuna questa volta il Presidente americano non ha abboccato. Simile anche il caso afhgano, anche se in quel contesto non c’era una vera entità statale da sbriciolare.

Riedel conclude che a trarre vantaggi dal disastro irakeno è soprattutto l’Iran, perché “un Irak diviso in tre piccoli Stati sarà più facile da manipolare”. Si avvererà la sua previsione? E lo Stato sunnita coinciderà con l’ISIS o sarà qualcosa di diverso? Ovvio che ora non si possono dare risposte certe. L’unico dato concreto è il caos immane causato dalle “guerre democratiche” e dall’intento di “esportare la democrazia”. Per il resto occorre attendere per vedere quanto, e in che modo, tale dato sia stato recepito dai circoli che a Washington contano davvero.

Featured image, Muʿammar Gheddafi


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