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In merito al qui presente primo capitolo la critica si è principalmente concentrata sugli aspetti ideologici del regista, ovvero quelli di inscenare un sentimento pressoché universalizzato nell’estremo oriente: l’impossibilità di relazionarsi che viene collegata ad un abuso delle nuove tecnologie (internet).
È innegabile la presenza di tali elementi nella pellicola, ma sondando l’approccio del regista che è poco vicino ad una veduta realistica della situazione, ecco che l’opera acquista un valore ben diverso, magari distante da un ritratto di denuncia sociale, eppure sul piano artistico decisamente, e dannatamente, convincente.
Dunque, che si parli di alienazione o meno non mi pare che sia così importante (e comunque, aldilà di tutto se ne parla), piuttosto va sottolineato come questo argomento venga esplicitato. I meriti di Jisatsu sâkuru si concentrano in uno stile derivante – ma non in maniera derivativa! – dall’estremismo di Miike. Non siamo ai livelli del prolifico Takashi, ma anche qui molto, se non tutto, è portato all’eccesso: non è un solo suicidio, sono decine, centinaia; non sono adulti a volere la morte, sono ragazzini/e che quasi incoscientemente si abbandonano alla grande consolatrice. Anche sul piano visivo si tende a sovrabbondare: il sangue schizza a secchiate, la mdp indugia il giusto sulla madre che si affetta le dita, le immagini diventano piacevolmente delle visioni – le lenzuola in cui vengono avvolte le vittime, il bowling abbandonato come l’alcova criminale, lo sgabuzzino quasi dantesco nel quale vengono asportati i lembi di pelle – alle quali va aggiunta una dose massiccia di humor nero come la pece generante momenti di ridicolo (però volontario), vedasi l’emulatore che si crede il Charles Manson del nuovo millennio alle prese con tacchi a spillo e vestitini stile drag queen. Infine non sfugge a tale sregolatezza anche il dramma che mai si riduce e che anzi si alimenta di dolore arrivando all’ennesimo harakiri con la morte del poliziotto.
Il mio consiglio è quello di prendere le distanze da una concezione del film vicina alla realtà. Tanto è vero che l’indagine poliziesca, di solito scheletro portante di un thriller, si fa sempre più singola tessera di un mosaico decisamente più grande e complesso. Perciò è necessario andare oltre alle semplici situazioni. Al cosa li spingeva al suicidio, piega della storia effettivamente un po’ confusa, si sostituisce il perché, ed anche se la matrice sociologica non vi soddisfa, rimane un esempio di cinema perfettamente imperfetto che merita una chance.
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