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Suicidi a piè di lista

Creato il 16 agosto 2013 da Albertocapece

GUARAN~1Anna Lombroso per il Simplicissimus

Noi (50 uomini, 50 donne e 70 bambini) Guarani-Kaiowá della comunità del tekoha Pyelito kue / Mbrakay,scriviamo questo appello prima di essere attaccati, violentati e gettati nel fiume…

Comincia così la lettera che i capi della  comunità indigenza Guaraní-Kaiowá del Mato Grosso do Sul, hanno scritto annunciando  il  suicidio di massa di 170 persone (50 uomini, 50 donne e 70 bambini), se sarà reso esecutivo l’ordine della Corte federale di privare la tribù della ‘Cambará Farm’, dove sono temporaneamente accampati. Sono stati depredati  del loro territorio, che era anche un luogo di culto, oggetto di una speculazione favorita dal governo. L’inarrestabile progresso in questo caso prevede che il tekoha dei Guarani – Kaiowa si trasformi in profittevoli piantagionio di soia e canna da zucchero, non solo a scopo alimentare, e in terreno di pastura per il bestiamo in attesa di diventare hamburger.

 Non hanno scelta: o se ne vanno, in un modo o nell’altro, deportati o suicidi, o sono condannati a pagare la permanenza sulla loro terra 2.500 dollari al giorno.

Non sono mai finiti i crimini dell’Occidente, le istigazioni a quei tremendi suicidi di massa ai tempi delle rapine coloniali. Anzi ora gli stessi carnefici applicano i loro disegni delittuosi all’interno dei loro stati, ai danni dei loro terzi mondi interni, diventati terreni di scorrerie.

I Guarani-Kaiowá ricordano gli Xosa il cui atto definitivo e totale di autodistruzione viene descritto da Canetti in Massa e Potere, espropriati di identità, costretti all’abiura dei loro dei, spogliati di tutti i loro poveri beni e anche della loro volontà personale, tanto da estinguerla in quella che gli studiosi chiamano intenzionalità collettiva, nell’obiettivo concorde di destituzione della coscienza personale verso un istinto di annullamento e di morte.

Ma ricordano anche altri popoli, altre comunità istigati all’autodissoluzione, a un suicidio apparentemente meno cruento, quello morale. L’induzione si esercita negli stessi modi e sugli stessi percorsi dell’orrore coloniale: rimozione, perdita di valori, autoinganno, ignara mimesi nel carnefice da parte delle vittime, sicché ne subiscono l’influenza, la fascinazione, lo imitano, lo invidiano, lo votano e infine lo proteggono a costo della loro stessa cancellazione.

Ricordano noi. Oggi il Simplicissimus si chiede come mai  le piazze siano piene in Egitto e non da noi.

Forse perché il suicidio morale si è già largamente consumato, con la dissoluzione della bellezza contenuto potente dell’andamento criminoso della vita economica e sociale, con la sistematica svendita di legalità in cambio di consenso, con la dissipazione di lingua, memoria, arte in cambio di una cultura comune, quella commerciale, pubblicitaria, mercantile, con  le dimissioni dalla coscienza  e dalla responsabilità individuale in cambio di una delega collettiva e di una abdicazione condivisa, con la rinuncia alla giustizia in cambio dell’arbitrarietà che ci si augura possa sfiorare con la polverina magica del privilegio immeritato.

Il suicidio collettivo ha già fatto una vittima, la dignità che quelli che una volta si chiamavano “selvaggi” hanno conservato, a costo della vita.


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