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Suicidio di Carlo Lizzani: l’implosione dell’etica laica

Creato il 01 novembre 2013 da Uccronline

Carlo LizzaniIl suicidio di Carlo Lizzani, il 5 ottobre scorso, è l’ennesimo caso di personaggi di laicità comprovata e manifestata (Monicelli, Lucentini, Magri, D’Amico ecc.) il cui senso dell’esistenza non ha retto di fronte all’invecchiamento e alla sofferenza. Ovviamente ai familiari va la nostra vicinanza e a Carlo il nostro rispetto, ma il suo tragico gesto, divenuto di dominio pubblico, va giudicato pubblicamente.

Come sempre accade in questi casi, molti esponenti della summa laicale hanno celebrato il suicidio di Lizzani come un atto di eroismo, di coraggio (anche se, a parte Umberto Veronesi, non si sono spinti fino alla logica conseguenza di invitare i giovani all’imitazione di questo valoroso gesto). Come spiegato da Tommaso Scandroglio, hanno sostenuto la loro posizione spiegando che il suicidio di Lizzani non va giudicato perché la morte è affare privatissimo. Peccato che subito dopo ne abbiano però fatto un affare pubblico e di Stato strumentalizzando tale morte per rilanciare la richiesta di eutanasia legale in Italia.

Ad abusare politicamente di questo “gesto privato” di Lizzani sono stati ovviamente i soliti radicali come Filomena Gallo e Mina Welby, abili manipolatori delle disgrazie altrui come ha sottolineato in precedenza il laico Sergio Romano.

I vari intellettuali di “Repubblica” e de “Il Giornale”, come Ozpetek e Feltri, hanno avuto il merito di evidenziare invece l’incoerenza della morale laica: il problema per loro non è quella di evitare suicidi e omicidi, ma di dare la possibilità di uccidere e di uccidersi in totale sicurezza. L’eutanasia in ospedale servirebbe a questo perché «il corpo di una persona schiacciata sul marciapiedi mi sembra un torto alla dignità», ha spiegato Ozpetek. È questione di stile: buttarsi giù da una finestra è volgare, suicidarsi con un’iniezione è invece molto rock.

Allo stesso modo per le stanze del buco: all’intellighenzia laica non interessa che i giovani si drogano e i motivi per cui lo fanno, l’importante è che lo facciano con siringhe sterili e in ambienti controllati. E ancora: è volgare che gli omosessuali comprino i bambini dalle povere donne indiane, molto meglio che facciano l’ordinazione e poi se li facciano regalare da occidentali “madri generose”, come ci hanno spiegato Chiara Lalli e Giuseppina La Delfa.

Non è un caso che l’implosione dell’etica laica sia perfettamente osservabile nelle parole del più noto esponente italiano, l’oncologo Umberto Veronesi: alla domanda «Che cosa direbbe agli italiani che non hanno più voglia di vivere?», Veronesi non ha dubbi: «Di procurarsi una corda o di aprire una finestra: non c’è altra soluzione legittima o accettabile. È assurdo perché uccidersi non è reato, anche il tentato suicidio non è punibile. Allora perché è reato aiutare qualcuno se questa persona ha scritto chiaramente qual è la sua volontà?». Questi sono i consigli illuminanti che Veronesi offre agli italiani, configurando le sue parole come istigazione al suicidio. Le domande che si pone, inoltre, sono completamente assurde e inaccettabili in un confronto razionale: nel nostro ordinamento giuridico il suicidio non è considerato reato perché sarebbe grottesco mettere dietro le sbarre un cadavere. Il tentato suicidio invece non è punibile, non perché lo Stato lo approvi – non tutto ciò che non è punito è da considerarsi legittimo si spiega al primo anno di giurisprudenza alle matricole – bensì perché sarebbe inutile spedire in carcere o comminare una multa al tentato suicida: i suoi problemi non si risolvono con la reclusione e questa sanzione potrebbe solo aggravarli. Se fosse legittimo, come dice Veronesi, tentare di togliersi la vita non si capisce il motivo per cui il nostro Stato punisce chi aiuta a suicidarsi (580 cp) o chi uccide un terzo con il suo consenso (579 cp). Se il suicidio fosse cosa buona l’omicida del consenziente potrebbe solo ricevere un encomio. Lo sfavore del nostro ordinamento invece verso il suicidio lo si deduce proprio da queste due norme che puniscono chi aiuta un altro a togliersi la vita.

Il suicidio non è un gesto di libertà (ma di libero arbitrio), nemmeno di coraggio, anzi è proprio un gesto di resa e l’eliminazione di ogni libertà. E’ un gesto di disperazione e chi esalta la disperazione è perché non è capace di ritrovare un significato più alto del vivere, del soffrire e del morire. E’ un problema esistenziale che ossessiona le nostre secolarizzate società. Il vero eroismo, la vera esaltazione della libertà è invece quella di Marina Neri, la giovane colpita da un raro tumore osseo che ha saputo combattere fino alla fine senza mai arrendersi. Non ha invitato l’umanità sofferente al suicidio, come Veronesi, ma ha offerto la sua testimonianza: «Per chiunque viva un’esperienza simile alla mia, credo che valga sempre la pena di lottare, di provarci credendoci totalmente. Darei la vita per non morire».

La redazione


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